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cultura dell'immagine e della parola

Venezia, Violet Hill
28-29 agosto

Abbas KiarostamiA dispetto delle code, del sole che brucia in questi giorni veneziani, della polvere di questa collina violacea che è la mostra del cinema quest’anno, qui al Lido si sta tranquilli, soprattutto dentro la sala spenta, in una solitudine impagabile.
E forse per uno strano e personalissimo umore virato al “no” e alla negatività in generale, non ho potuto godere appieno di Burn After Reading: forse troppi colori e troppe risate, toni alti e gridati, persino un pene di gomma… l’ultimo pene che ricordo in un loro film risale a Il grande Lebowski ed era solo disegnato…

Forse è perchè sto parlando continuamente dell’anno scorso, facendo disgustosi paragoni tra ieri e oggi come se confrontassi l’amante attuale con quello passato. Ma nemmeno l’evento, il filmone chiacchierato del divorzio tra Iñarritu e Arriaga, The Burning Plain riesce a prendermi appieno: l’intreccio, il gioco dello spazio e del tempo, l’arrotolarsi della storia su se stessa verso una conclusione per cui non riesco a provare empatia…

Così si cercano strade alternative, che a Venezia non mancano mai: Encarnação do Demônio dell’ormai 71enne regista José Moijca Marins, brasiliano, che mette in scena sé e il suo cinema horror alla maniera del B movie riprendendo un allucinante personaggio che aveva creato nel 1964 dirigendo il primo film horror brasiliano, At midnight I’ll take your soul. Indescrivibilmente grottesco, gore, sangue e sesso a volontà, recitazione caricaturale per un’opera perfetta da festival. Di quelle che non si vedono più davvero…

Come qualcos’altro difficile da vedere fuori Venezia, Zero Bridge del kashmiro Tariq Tapa: la storia di due fughe impossibili, girato in un digitale terroso e così stretto sui protagonisti che sembra volerli soffocare. Anche qui un montaggio che pare tornare sempre sui suoi passi e smonta la narrazione solo per ribadire ancor di più che da quel luogo, il Khasmir, per alcuni non è possibile fuggire.

E poi, colpita e stretta dentro una Venezia che mi pare piccola, o forse a mia misura, e io piccola lo sono, ritrovo qui i cari amici di Ring!, che presentano le novità del festival dei prossimi 2-3-4 ottobre.
La Mostra del cinema diventa una cornice perfetta dove riflettere sulla critica: davanti a così tante opere in un certo senso è fondamentale piegarsi, smettere di cercare se stessi e la propria voglia di esprimersi e aprirsi ai lavori dei registi, aprire gli occhi e accogliere le immagini, l’unico motivo per cui quelli come noi dovrebbero trovarsi a Venezia.

Un amico mi ha detto: “A volte bisogna fermarsi a pensare perchè veniamo a Venezia”. Forse io vengo a Venezia per ricevere un regalo. Quest’anno in particolare mi sembra di essere qui in attesa di qualcosa. Atteggiamento sbagliatissimo credo, che mi sta facendo diventare paranoica, cinica, ansiosa. Forse sono qui per imparare a rimanere sola in sala e godermi quel momento senza dover avere un’opinione o esprimere un giudizio. Solo guardare…

Per questo credo, mi ha incantato, spaventato, per alcuni minuti annoiato e messo alla prova Shirin di Abbas Kiarostami: un film sperimentale di un’ora e mezza formato dalle inquadrature dei volti di alcune donne in un cinema dove viene proiettato un dramma iraniano intitolato Mia dolce Shirin: in alcuni momenti dimenticavo i volti splendidi di queste donne e vedevo la storia della principessa d’Armenia. Andavo in un posto che non potevo vedere. Guardare le guardanti, in un cinema. È guardarsi senza la responsabilità di un giudizio…

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