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The Oblongs: gente come noi

O tempora, o mores. Le cose, tanto a livello planetario quanto a livello locale, vanno piuttosto maluccio, questo lo sappiamo. Inquinamento, povertà, negazione dei diritti umani, Melissa Satta in spiaggia che limona con Vieri: basta sfogliare un qualsiasi giornale per rendersi subito conto che – per dirla alla Guzzanti – “c’è grossa crisi”. Non ci fa piacere, è ovvio, ma quantomeno non dovremmo più stupirci quando ci viene detto. A questo punto siamo quasi completamente assuefatti, no? Angus Oblong, il creatore di The Oblongs, la famiglia cartoon statunitense che da marzo ci intrattiene dagli schermi di All Music, punta proprio sulla nostra ormai scarsa soglia di allarme per provare a stoccare qualche colpo satirico efficace, portando sul piccolo schermo un vasto campionario di deformità, paranoie e soprusi assolutamente in linea con le tendenze del terzo millennio.

Il soggetto della serie, d’altra parte, è piuttosto semplice. In una immaginaria città industrializzata contemporanea, i ricchi vivono nelle case in collina dove l’aria è respirabile, mentre i poveri stanno nella valle sottostante, dove le fabbriche scaricano le loro scorie novibr. Gli Oblong sono il tipico nucleo familiare della valle: il capofamiglia Bob è privo degli arti, sua moglie Pickles (trasferitasi dalla collina) ha perso i capelli, i gemelli Chip e Biff sono uniti per una chiappa, il terzogenito Milo soffre di turbe psichiche e la piccola Beth sfoggia un vistoso tumore sulla sommità del cranio. I due cuccioli di famiglia, il cane Scottie e il gatto Lucky, sono rispettivamente narcolettico e tabagista. A conti fatti, una rappresentazione grottesca delle peggiori ansie alla base delle proteste di tipo “Not in My Backyard”. Inquietudini che anche noi italiani, tra discariche da ricollocare, centrali nucleari da inaugurare e TAV da installare, ben conosciamo.

Niente di straordinario, in realtà. Il prodotto è ben fatto (sia graficamente che sul piano della sceneggiatura) e funziona piuttosto bene, ma siamo piuttosto lontani dai picchi di The Simpsons o Family Guy, tanto per citare i due “pesi massimi” del genere. Per quanto le singole trovate, spingendo soprattutto sul tasto dell’orrido, riescano a essere efficaci e a strappare la classica risata amara, alla fine il prodotto non si solleva troppo da un certo buonismo di fondo che alla lunga risulta per appiattire un po’ il tono della serie. Il confronto con i lavori di Matt Groening e Seth MacFarlane è comunque interessante – e inquietante – se lo si considera dal punto di vista cronologico. In questo caso, infatti, l’avanzata del pessimismo risulta piuttosto evidente.

I Simpson sono lo specchio della società in cui vivono e questo li rende, in un certo senso, ben “integrati”. Non a caso, l’anima malinconica della famiglia è Lisa: l’unico personaggio “sopra la media” e quindi conscio dell’abbrutimento che lo circonda I Griffin iniziavano già a mostrare segni di cedimento e insofferenza, finendo vittima di paranoie solitamente esorcizzate attraverso comportamente blandamente antisociali come l’esibizionismo di Peter, l’alcolismo di Brian o l’aggressività di Stewe. Gli Oblong, seguendo questo filo, ci appaiono come le prime vere e proprie vittime del sistema. Loro non si sono uniformati: semplicemente lo stato delle cose li ha schiacciati. Sanno di avere scarsissime possibilità di essere felici, e per questo abbassano sistematicamente i propri standard di soddisfazione. Gli sfortunatissimi Oblong, infatti, non protestano e non si arrabbiano mai: semplicemente accettano lo status quo. Se vogliamo dare retta a una piccola serie d’animazione senza troppe pretese sociologiche, forse questo è un motivo in più per continuare a indignarci e a far sentire la nostra voce.

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