Un gioco di famiglia
Il mio sogno più grande è la storia (quasi) vera della prima ragazza che riuscì a giocare in una squadra maschile di calcio, nel 1978. Impossibile? Forse in Italia, ma in America esiste una legge, la Title Nine, la quale stabilisce che nessuno può essere escluso da attività didattiche e ricreative a causa di sesso, religione o razza. Ed è in questo modo che Gracie riuscì a esaudire il suo sogno più grande. Ma in realtà Gracie è un nome fittizio, dietro al quale si nasconderebbe l’attrice Elisabeth Shue. Si, proprio lei, la splendida protagonista di Via da Las Vegas (Leaving Las Vegas, Mike Figgis, 1995) che, da ragazzina, era una giocatrice di calcio. Papà giocava e allenava, i fratelli giocavano e quindi perché anche lei non avrebbe dovuto? Quando il fratello morì in un incidente stradale, fu proprio Elisabeth, grazie alla Title Nine, che prese il suo posto nella squadra della scuola.
Questo è lo spunto di partenza del film, una storia vera che la famiglia Shue ha raccontato alle due sceneggiatrici Lisa Marie Petersen e Karen Janszen e dalla quale è nata la storia di Gracie, giovane e indomita adolescente che scopre di preferire “giocare” con i maschi, piuttosto che uscire con loro. E il film è quanto mai una questione di famiglia: si tratta della prima produzione della Ursa Major Films creata dagli Shue, in cui Elisabeth interpreta la madre di Gracie, Andrew è il coach e la regia è stata affidata a Davis Guggenheim, marito di Elisabeth. Ma che sia chiaro: il film vuole raccontare la formazione di un’adolescente, piuttosto che un’avventura sportiva. Una lezione per gli italiani, che a parte poche eccezioni (Il presidente del Borgorosso Football Club, L’allenatore nel pallone, Ultimo minuto), non sono mai riusciti a portare sullo schermo con successo delle storie legate al nostro sport nazionale. Ma non si pensi che Il mio sogno più grande sia prefettamente riuscito. Anzi. Nonostante una certa dose di simpatia che suscita questo “affare di famiglia”, il risultato è quanto mai banale. Dalla sua c’è la brava Carly Schroeder, che ha carattere e fisique du role, ma la storia, sebbene vera, è quanto mai scontata.
I realizzatori ci hanno provato a scombinare le carte per stupire lo spettatore, riuscendo a far succedere comunque “l’inevitabile”, magari con qualche inquadratura di ritardo. La ragazza vuole giocare, trova degli ostacoli, li supera e grazie a grinta, sacrifici e sostegno da parte di familiari, raggiungerà il suo scopo. Non si tratta di uno spoiler: in fondo già nel prologo del film è evidente che a un certo punto Gracie prenderà un pallone che sembrava stregato, accanto al piede le rimarrà incollato, entrerà nell’area, tirerà senza guardare e che il portiere lo farà passare.
Curiosità
Il film è dedicato alla memoria di William Shue, fratello di Elisabeth, morto in un incidente stradale nel 1978
A cura di Sara Sagrati
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