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La morte della morte

La morte della morte

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La telecamera simboleggia la contemporaneità. George Romero, all’alba dei suoi 67 anni, ha identificato in questo oggetto il veleno e l’antidoto di un mondo malato, in cui vero e falso non sono più il contrario l’uno dell’altro. Diary of the Dead, che si spera verrà distribuito presto in Italia, è l’ultimo capitolo della saga sugli zombi del regista de La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968). Come nei precedenti film, l’argomento è lo stesso, ma non si tratta di sequel. Da quarant’anni Romero continua a riproporre i suoi mostri per raccontare la contemporaneità. Ribellione, consumismo, globalizzazione, disparità tra ricchi e poveri. Ogni volta i non morti rappresentano la metafora di un tema legato all’oggi e ogni volta l’analisi risulta vincente.

Nel caso di Diary of the Dead si può tranquillamente urlare al capolavoro. L’utilizzo del linguaggio del mockumentary (falso documentario) è perfetto per raccontare la società della comunicazione. La soggettiva della telecamera di una troupe di studenti di cinema, che sta girando un horror in un bosco, diventa lo sguardo sulla fine di un mondo causato dalla morte della morte. Nella radura vengono raggiunti dalla notizia. I siti internet, la tv, la radio raccontano la tragedia e il regista decide di voler documentare gli eventi per chi verrà dopo. Diventa un’ossessione e il viaggio verso casa, sempre che una casa esista ancora, si tramuta in una lotta per la sopravvivenza di se stessi e del film. Un’ossessione giustificata dalla volontà di rimanere vivi, nella convinzione che la telecamera stessa li possa proteggere. Quello che si vede però non è sempre vero (il tentativo dei media di sgonfiare la notizia) e gli zombi non aspettano in posa per farsi riprendere, arrivano sempre all’improvviso dal fuori campo.

Il cortocircuito cinematografico e meta-cinematografico del film nel film, unito alle notizie dai media, mostrano la totale deriva assunta dal mondo dell’informazione. Cosa è vero e cosa è falso? La società della “real tv” ha all’interno tutte queste contraddizioni. La volontà di apparire e di documentare ci porta a vedere tutto fino ad avere la sensazione di non sapere più niente. La grandezza di Diary of the Dead è il non fermarsi alla mera critica sociale travestita da horror, ma il mostrarci un possibile scenario futuro. Se operazioni simili, come Rec (id., Jaume Balagueró e Paco Plaza, 2007), che tra l’altro viene citato, usano una storia per giocare con il mezzo (la soggettiva della telecamera), Romero fa il contrario: usa il mezzo più congeniale per raccontare la sua storia. Una lucidità di pensiero e di visione quasi spiazzante di un mondo in cui alla fine gli zombi, i vincitori della guerra, diventano comunque vittime di un’umanità che ha perso la direzione. Un’umanità a cui è necessario mostrare se stessa prima della fine e che forse vale davvero la pena di riprendere. Senza dimenticare che, in inglese, to shoot vuol dire riprendere, ma anche sparare. To shoot fino a che non scorreranno lacrime di sangue, in un provocatorio e scioccante sguardo in macchina.

Curiosità
Le voci della radio, nella versione originale, sono di Wes Craven, Stephen King, Quentin Tarantino, Guillermo del Toro e Simon Pegg (l’autore di L’Alba dei morti dementiShaun of the Dead, 2004). Attualmente è in fase di produzione il seguel che uscirà nel 2009.

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