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Cacciatori e cacciati

Aquiloni come emblemi di libertà. Aquiloni come bandiere di una città che ha il coraggio, il potere, la voglia di fermarsi per guardare un gioco per bambini. Questi erano Kabul e l’Afghanistan del 1978, questo era il mondo in cui Amir e Hassan sono cresciuti e sono diventati amici fraterni. Un mondo che non c’è più e che è evocato all’inizio di entrambe le opere per mostrare, un po’ semplicisticamente, il sempreverde “si stava meglio quando si stava peggio”.
Hassan figlio del maggiordomo, Amir figlio del padrone. Hosseini, schierando così i due protagonisti, predispone già il lettore a un prossimo rovesciamento dei destini dati dal sangue. Hassan è infatti il povero ma coraggioso, Amir il ricco ma debole, perennemente nell’ombra del rispettato padre. Un’impostazione indubbiamente buonista che porta lettori e spettatori a parteggiare per Hassan. Tuttavia, l’intera vicenda è vissuta attraverso gli occhi, la voce e i pensieri di Amir che, futuro scrittore, subisce in prima persona questa che è la sua prima vera storia. Catartica per lui e illuminante per il suo destino di narratore-testimone-vittima della storia del suo paese.

Sono chiari gli indizi autobiografici, sparsi lungo tutto il romanzo, che la sceneggiatura, firmata da David Benioff (La 25a ora), rispetta. Il risultato è un film con due facce: quella del contenuto, che viene onorato, e quella della messa in scena. Quest’ultima, a causa di un cast interamente mediorientale (mentre il dietro le quinte è solamente statunitense o cinese, così come cinese è il set di molte riprese in esterna), risulta poco in sintonia con l’orecchio omologato degli spettatori occidentali. Un film non per tutti, dunque, un film dall’inevitabile fisionomia “artigianale”.

La traduzione italiana del libro, invece, è squisitamente media, adatta a tutti i palati. La narrazione vorrebbe essere civile, impegnata, e civilizzatrice verso la poco conosciuta storia afghana. Purtroppo s’impernia con molto più successo sul sentimentalismo tragico dell’amicizia e dell’infanzia negate dei protagonisti piuttosto che sui grandi perché storico-politici che stanno dietro alla vicenda. Così l’invasione russa e il regime talebano diventano poco più che sfondi, proposti come elementi di pura fiction piuttosto che come fatti storici. Questa prospettiva di non-analisi è in qualche modo accettabile per il libro, in linea con i suoi talenti meramente narrativi. Del tutto diverso è il caso del film che, limitandosi alla sola evocazione della storia afghana, non trova sbocco al di là della vicenda narrata. Un film a cui piace troppo essere cacciatore e che non si chiede mai il perché della caccia: mostra vittime e carnefici, ma non mostra i motivi dei crimini e delle punizioni. Ci fa vedere, ma non ci fa capire.
Dal romanzo al film rimane costante la sognante semplicità e la spensieratezza del gioco della caccia all’aquilone, che diventa metafora della libertà proibita e appiglio per una speranza debole ma tenace verso il mondo che sarà.

Il cacciatore di aquiloni, romanzo di Khaled Hosseini, 2003
Il cacciatore di aquiloni, regia di Marc Forster, 2007

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