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Un continente pieno

Un continente pieno

Yunus Vally è sudafricano, nero, musulmano e di etnia indiana; è talentuoso, colto, ama mettersi le dita nel naso ed è anche molto simpatico. Qualità che evidentemente piacciono alle donne, anche quelle bianche, al punto che il buon Yunus ha potuto (come direbbe lui) scoparsene tante da farci un documentario. E piacciono anche agli spettatori, che gli perdonano volentieri di aver realizzato l’ennesimo documentario “à la Michael Moore”, anche perché l’illustrissimo modello viene, a tratti, addirittura superato.

Il punto di vista da cui il film parte per affrontare la scomoda rievocazione dell’apartheid (e non si può dire che non l’affronti: il coraggio del regista non è inferiore alla sua furbizia) è quantomeno originale. L’adolescenza e lo sviluppo sessuale di Yunus, come probabilmente di gran parte della sua generazione, sono irrimediabilmente segnati da un’ossessione: quella per le donne bianche, inarrivabili e irraggiungibili per i neri sudafricani (anche un semplice bacio inter-razziale all’epoca era passibile di arresto) ma nel contempo onnipresenti sulle copertine delle riviste, sui cartelloni pubblicitari, sulle pagine dei fotoromanzi inviati alle truppe al fronte. Un’ossessione che finalmente può trovare il suo sbocco negli anni della rivoluzione, quando culture e razze cominciano a incrociarsi a Yeoville e anche Yunus può cominciare a “esplorare” il suo mito d’infanzia, intrecciando relazioni talvolta anche relativamente stabili con donne bianche e “addirittura” ebree.
La conclusione di questo lungo percorso sarebbe piuttosto amara: alla fine del primo decennio del Duemila, come ci mostra impietosa la telecamera, la donna “caucasica” continua a essere l’oggetto preferito dal marketing e dalla pubblicità, le Miss Sud Africa sono di nuovo bionde dagli occhi azzurri come ai tempi dell’apartheid (irresistibile l’intervista ad Annette Kasselman…) e quello delle donne bianche, che sembrava al giovane Yunus un territorio inesplorato e affascinante, si rivela soltanto “un continente vuoto”. Diciamo sarebbe, perché con la sorpresa finale (che non sveliamo) il regista trova il modo di lanciare una piccola speranza per l’integrazione razziale e, al tempo stesso, di arruffianarsi ulteriormente lo spettatore.

Quando si arriva al termine degli ottanta minuti di pellicola, in effetti, si è già irrimediabilmente prede della vena comica dell’autore, di quella dei suoi intervistati («Ci eravamo un po’ fatti prendere la mano da pugni e catene» ammette, sornione, l’autore dei manifesti rivoluzionari degli anni Ottanta) e dal vivacissimo montaggio che mescola telegiornali di regime e manifesti murali, premiazioni di concorsi di bellezza e tentativi di softcore in salsa africana. Il collage è perfettamente riuscito, e usiamo questo termine non a caso, visto che gran parte del materiale utilizzato per il film proviene proprio dai ritagli di giornale gelosamente conservati dall’autore.
Di risposte, è vero, Yunus non ne dà, e viene da dubitare dell’esistenza stessa delle domande. Ma dalla visione si esce definitivamente conquistati, canticchiando i temi della colonna sonora (assai ruffiana anch’essa) che gioca sulle note e sul testo di I’ve got you under my skin.

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