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cultura dell'immagine e della parola

Nero

L’appuntamento era alla periferia di Parigi, in uno di quei vicoli fatiscenti e senza uscita, acciottolato sconnesso e mattoni a vista sbrecciati, tetti di ardesia, rimesse senza storia e lugubri garage dimenticati, odore di galliche fumate rabbiosamente e di cavoli bolliti. Il Regista li ha chiamati e loro hanno risposto rispettosi, loro che l’hanno sempre conosciuto soltanto come Il Regista, identità nascosta da un nome d’arte, la cosa più naturale del loro mondo.

Quello al volante di una Citroën DS, tocco d’eleganza di una cravatta bianca a pois scuri su camicia celeste (uno fissato con le cravatte: ben trecentosettantadue nel suo nascondiglio di Malakoff), occhiali con lenti affumicate per mistificare la faccia, una bella faccia da criminale, come hanno chiosato gli sbirri all’ufficio matricola mentre lo fotografavano di fronte e di lato, è conosciuto suo malgrado come “Ho”, benché sia nato François Holin e sia noto ai lettori del Paris Soir come “Arsenio Lupin + Al Capone = François Holin”, titolo cubitale in prima pagina da sbattere in faccia ai tangheri che si ostinano a chiamarlo “Ho”. A modo suo è un signore, François Holin, perché per lui i soldi non sono tutto, soldi di rapine e di corse automobilistiche sfortunate, Se non lo capite, non capirete mai il mio personaggio, ama ripetere.
Un musone che chiamano Il Rapace abdica alla stanchezza di vagabondaggi senza fine, trovando infine conforto e sostegno nella parete di mattoni. Un tipo massiccio, volto di pietra che ha murato emozioni e rimpianti di occasioni perdute, sguardo amaro, borsalino gualcito in testa, giaccone impermeabile con il colletto alzato, sacca a tracolla. Sgranocchia bulbi crudi e traffica con una scatola per confezionare sigarette: la cartina, quindi il tabacco, poi due scatti secchi, trac trac, e ne scaturisce il cilindro perfetto, pulito, nello stile pulito di un killer professionista, che lavora pulito prevalentemente in America Latina, dove rivoluzioni e golpe sono pane quotidiano, rancido.
Il terzo, seduto sul marciapiede, si gingilla con un medaglione forato nel quale fa scorrere una corda tesa dalle mani. Le dita intrecciano veloci il reticolo di geometrica esattezza che implica già la rivelazione del trucco, la caduta libera della moneta, che lui riprende al volo, vi infila di nuovo la cordicella e ricomincia a tessere ragnatele di un destino già deciso. Lo chiamano il Calmucco, un corso che in un paese esotico ha trovato un tesoro e che si è battuto in duello per una donna, la donna per una notte. Cosa d’altri tempi, ma la sua Corsica è una cosa d’altri tempi, dove un marito tradito, in base ad una presunta legge del sopravvissuto, può condannare per vendetta la moglie a prostituirsi.

E poi c’è un messicano con un organetto, guardaspalle dello Scomunicato che nasconde due revolver inglesi nelle tasche interne del cappotto e un destino nelle linee della mano che nessun chiromante avrebbe il coraggio di guardare. E perfino lo Zingaro, rayban e baffi spioventi, fazzoletto gitano annodato al collo, coltello a serramanico, avrà pure un nome nella memoria degli affetti di chi l’ha amato, Hugo Sénart infatti si chiama, ma per il mondo è soltanto Le Gitan.
Costoro hanno avuto un qualche ruolo nelle trame del Regista, mai tutti insieme però. Non era mai accaduto che Il Regista li convocasse allo stesso tempo e nello stesso luogo per un lavoro d’equipe. Sono dei solitari, loro, con un vago orgoglio da misantropi nello sguardo e un’infallibile pena da emarginati nel cuore. Si scambiano soltanto parole smozzicate, sopravvissute a dialoghi demoliti dal tramonto.

L’appuntamento era per le sette di sera, alla periferia di Parigi, in uno di quei vicoli fatiscenti e senza uscita, in un garage dimenticato, alle sette della sera, che è l’ora del pastis e degli addii.
[img4]Il messicano continua a macinare la sua musica, sempre la stessa, vagamente epica, vagamente malinconica. Tutti hanno già perso la poca voglia che avevano di parlare, abbottonati nelle loro distintive manie: cravatte, bulbi crudi, prestidigitazioni, revolver basculanti, musiche a manovella, coltelli.
È passata l’ora di cena quando un tizio attraversa il vicolo con una faccia da funerale. I sei personaggi gli si fanno incontro con un freddo nelle ossa mai provato prima.
- L’appuntamento è saltato. Il Regista non verrà più.
Gli scappa una smorfia di rammarico e un sospiro.
- Si può sapere di che si trattava?
- Voleva che vi incontraste, tutto qua. Avrebbe voluto esserci per salutarvi, manie di scrittore, ma ormai…
I personaggi si scambiano sguardi pieni di silenzi e sconfitte, alzano le spalle e si allontanano risucchiati nella pellicola della notte che li estingue ad uno ad uno.
Nel vicolo buio vaga per un po’ la musica soffiata dal macinino del messicano, sempre la stessa, vagamente pentatonica, vagamente malinconica, vagamente alla ricerca del cammino per i giardini introvabili che José teneva nel cuore.

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