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L’amore migliore

L’amore migliore

Ian McEwan costruttore d’idilli amorosi? Nessuno ci ha mai creduto veramente, nemmeno per un momento. Nell’Inghilterra del 1962, ancora capace di palpiti di superiorità colonialista, ancora del tutto inclusa e tranquilla nella britishness più smaccata, McEwan pone le figurine manufatte del suo nuovo diorama. Edward e Florence, i due protagonisti, sono le sue statuine private, perfette e precisissime. Protagonisti di mestiere, hanno le qualità e i difetti che ci si aspetta dai bravi ragazzi. Sorprende invece McEwan, che si avventura nell’analizzare il catastrofismo adolescenziale dei due giovani sposi dinnanzi alla prima notte di nozze. Sorprende perché il suo sguardo, solitamente acuto ed efficace a livello narrativo, assurge ad un’utilità anche a livello sociologico, insinuandosi in quella generazione nata durante il conflitto mondiale e facendola parlare, sfogare e camminare sulle proprie gambe. L’incertezza virale degli anni bellici è tristemente proseguita negli affanni internazionali della Guerra fredda e solo negli anni Sessanta, i giovani, come Edward e Florence, che erano nati in quel corpo malato e che da esso erano stati cresciuti, riuscirono a staccarsene e a trovare climi più sani.

Così i due protagonisti incarnano sia ciò da cui vogliono scappare, l’anticaglia interpersonale dei genitori, sia ciò che vogliono inconsciamente raggiungere: quella rivoluzione che già si cominciava a odorare e che di lì a pochi anni avrebbe investito il mondo intero. Questa dualità è esemplare in Florence, ancora profondamente legata al passato, riguardo al sesso, di cui ha un’opinione pessima, come di contrappasso, per raggiungere la felicità insieme a Edward. Anch’egli, a causa delle grandi aspettative per la prima notte, si trova zavorrato e favoleggia di stellari prestazioni da parte sua e di inimmaginabile disinibizione della sua amata. McEwan, maestro d’interni, costruisce un quadro dall’inedita e smaliziata verve: da un lato, il disgusto, che diventa presto comico, della pudica Florence che approccia alla carnalità dell’atto; dall’altro la complicità di McEwan con il suo protagonista, nell’indaffararsi, poco e male, nei preparativi per le nozze (il suo contribuito principale è stato astenersi per una settimana dalla masturbazione!). La verginità di lei, che non si limita al piano fisico ma che sfocia ad un più buffo piano lessicale (con sommi sgomenti di fronte a termini dal suono barbaro come turgido e penetrazione), cozza piacevolmente con il famelico ghigno di desiderio del giovane sposo.

Tuttavia questo è solo uno spicchio dei due sfaccettati personaggi. L’etichetta “Made of McEwan” ce l’hanno eccome: il loro rapporto nel gestire l’esperienza sessuale si configura come un negoziato tra ostaggi, in cui lei è bloccata tra la ripugnanza verso l’atto e la ferma di volontà di non deludere il marito, e dove lui, emblema di una generazione sull’orlo di cambiamenti epocali, è già sconquassato dall’ansia per conclusioni premature, dentro e fuori le lenzuola. Questo è tipico di McEwan: non concentrarsi sull’arrivo del piede a terra, ma sull’aria da attraversare per compiere il passo. Qui non si racconta della rivoluzione sessuale, ma di ciò che è stato prima, anzi, meglio, sulla soglia tra quell’evento e il passato. Come per cogliere, con piglio da storico, le origini, e non le cause dirette – troppo facili! -; per sentirsi bene in faccia che odore avesse il respiro profondo prima del salto. La storia intima dei due ragazzi diventa la storia generale di quegli anni di passaggi. La delicatezza estrema ed eroica, visti i nostri tempi sdoganati, smaschera la vicinanza biografica dello scrittore a quegli eventi e svela il vero valore del libro.
Solo per un attimo ho dubitato se mettere o no un punto di domanda alla fine del titolo, poi sono stato travolto dalla concretezza e dal realismo cruciale che il romanzo vuole sostenere a proposito dell’amore, a proposito di quello migliore, in cui tutto vale ancora la pena di tutto.

L’autore
Ian McEwan è uno dei maggiori narratori contemporanei. E’ nato in Inghilterra nel 1948. Tra i suoi romanzi più recenti sono da citare Amsterdam, Sabato, Espiazione, tutti accolti da un grande successo di critica e pubblico. Una curiosità: dato il tono cupo dominante nel suo lavoro viene soprannominato da alcuni “Ian Macabre” (Ian il macabro), giocando su un’assonanza con il suo vero nome.

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