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cultura dell'immagine e della parola

Dalla pelle al cuore

Dalla pelle al cuore

“So che mi perdonerai/ mi devi perdonare/ so che tu ce la farai/ e dalla pelle al cuore/ che devo ritornare/ senza più parole”. Le parole di Venditti si muovono parallelamente alla carreggiata presa da Jerry, con le sue lettere inviate ogni mese a Holly, lettere che inevitabilmente ogni volta terminano con il messaggio “P.S. I Love You”. In situazioni diverse il messaggio lasciato dalla canzone e dalle lettere vuole essere lo stesso: è una richiesta di scusa. Scusa per un abbandono non voluto, che lascia davanti una prospettiva di libertà e solitudine infinite.

E per Holly il problema è questo. Come si fa a iniziare a vivere da soli una vita che si era abituati a pensare in due? Per Holly perdere il marito non significa soltanto perdere la persona da lei più amata. Significa innanzitutto perdere lo slancio con il quale affrontare la vita, iniziare a guardarsi dentro e a chiedersi cosa si vuole fare di se stessa, come si vuole vivere. E Holly lo sa, che dialogare con la propria immagine riflessa nello specchio non è affatto semplice. Infinitamente più semplice è cercare se stessi nel rapporto l’altro, in un confronto che si evolve giorno dopo giorno, in un flusso vitale e dinamico continuo, senza fine. Perché nell’altro si possono mettere a tacere paure e dubbi, colmando l’altro dei proprio silenzi, facendolo parte delle proprie emozioni, fino a che queste diventano chiare e cristalline anche a se stessi. Eppure in tal modo si è umani soltanto a metà. “Essere al mondo” inteso come un “essere presente davanti al” vuol dire soprattutto conoscere ciò che si è e accettarlo, e per poterlo accettare occorre non dimenticarsi di una verità: che l’uomo, per definizione è solo. Nasce solo, cresce solo, muore altrettanto. Solo. Gli altri possono soltanto accompagnare un tratto di percorso, possono alleviarlo e sicuramente migliorarlo, ma non sostituirlo. Non si può comprendere appieno l’altro, il diverso da sé senza comprendere se stessi. Un messaggio potente che mira a far riflettere e che potenzialmente potrebbe anche farlo. Eppure un messaggio che non riesce a raggiungere il cuore e la mente dello spettatore, rimbalzando appena sulla pelle, come se fosse una pallina di gomma, per poi cadere qualche metro più in là, ai suoi piedi. Foglia che muore, disseccata e un poco incolore. Un film decisamente dal taglio frettoloso. Troppo. Troppe cose si vogliono dire in neppure due ore di film.

LaGravenese, sceneggiatore di altri film come La leggenda del re pescatore (The Fisher King, Terry Gilliam, 1991) e I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County, Clint Eastwood, 1995) non si rende conto del fatto che voler dire troppe cose assieme è sinonimo di non riuscire a comunicare effettivamente nulla. Le scene si affastellano una sull’altra in maniera troppo vorticosa, la recitazione dei personaggi non è del tutto convincente, un po’ stucchevole e caricaturale. La bellezza di Hilary Swank e il fascino di Gerard Butler certo mantengono viva l’attenzione ma non riescono certo a dare credibilità a una serie di rapporti che appaiono alquanto falsi e di facciata. Crescere vuol dire mettere avanti un passo dietro l’altro, senza essere accompagnati da nessuno. Solo un passo dietro l’altro fino a creare una retta continua. Una retta che arriva fin sopra, fino al cielo. Oltre le stelle. Eppure si impedisce a questo contenuto di emergere rendendo alla fine il film di una qualità un poco debole e deludente.

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