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cultura dell'immagine e della parola

Monografia
Jaron Albertin – 2

La produzione del 2007 di Albertin merita un’attenzione piena, o meglio, <i>Does it offend you yeah? – Weird scene</i>” />riesce a catturarla senza troppi sforzi, rimanendo nell’immaginario con la forza della novità.<br />
<strong>Sei lavori quieti e inquietanti, che sembrano venire da un mondo irrazionale e sommerso</strong>, che sanno di psicanalisi e sforzo inventivo, di bellezza formale e stralunamento del razionale.</p>
<p><em><A href=Weird Science dei Does it offend you yeah? oppone alla forza elettrica del pezzo musicale un luogo e un momento naturale, in un parco, tra coppie intente ad amoreggiare. Lo scarto è uno strappo, nel vero senso del termine, un taglio netto tra ordinario e mostruoso, tra spazio familiare e visione oscena: un “fuori scena” innestato come una protesi nell’inquadratura osservabile e visibile. Le due creature attaccate per la faccia sono esse stesse un panorama scopico, uno spettacolo sbirciato, un errore ridefinito come desiderabile e irresistibile da guardare (al passaggio, i due stimolano, negli altri che li guardano, l’incontro fisico, la voglia di fondersi e rimanere attaccati).
Il corpo ancora una volta si fa cosa sperimentabile, gomma, plastica e maschera inverosimile, l’atto di guardare provoca sconvolgimenti e sogni; per i due esseri abnormi si materializza la possibilità di una separazione weird, da film horror di serie B, solo per poter riunire, mescolare, le proprie entità finalmente divise.

Forse l’unico momento in cui Jaron Albertin accantona il suo gusto dark è con lo scanzonato The Magic Position di Patrick Wolf: serenissima scelta di fondali pastello e di un immaginario danzareccio coreografato come negli anni Sessanta, il video scivola via, divertendo con scene quasi casaline di ballo, con un set esplicitamente “genuino”, costruendo piani sovrapposti tra ripresa diretta e computergrafica. Albertin non rinuncia nemmeno qui a raccontare il processo di messa in scena.

Diverso il discorso per i lavori con Metric e con la loro frontwoman Emily Haines. Un incontro artistico che ha prodotto stupende visioni, poetiche e inquietanti insieme, in grado nei 4 minuti di video di raccogliere storie, scatti di fantasia, emozioni perturbanti.
Empty per i Metric inizia finendo, comincia <i>Metric – Empty</i>” />rallentandosi, contorcendosi e frenando la visione di un tempo lineare. Cosa è accaduto in quella casa? La risposta, ancora una volta, rimane fuori scena, lasciando il gusto delle conseguenze e delle domande.<br />
L’ingresso nel videoclip è quello favolistico della soglia buia, la casa è quella infestata che ritroviamo nel suo <em><A href=Kingdom di David Gahan.
Magia bella da vedere, ma spaventosa, la devastazione di quell’abitazione vuota e accatastata che si muove da sola richiama una fine del mondo, epilogo di qualche terribile evento. L’uomo lì non c’è, o meglio, è nascosto, non più umano ma reificato, pezzo d’arredamento anch’egli.

Per Emily Haines & the Soft Skeleton Jaron Albertin ha creato nei primi due singoli dell’album due differenti visioni iconografiche che racchiudono il suo tocco: da una parte Doctor Blind, cinematografico, “realistico”, concreto nelle immagini e nel suono, che figurativizza il disagio, la paura, la perdita di consistenza corporale, tattile e umana dentro lo spersonalizzante luogo del supermarket.
Dall’altra parte il dolcissimo Our Hell, scene condensate probabilmente con una macchina da presa termica, che delinea una diversa rappresentazione del corpo, facendone emergere la mostruosità, l’inconsistenza, la perdita di ogni caratteristica umana: gli esseri umani diventano diversi, alieni, demoni, zombi, trasfigurati in un “altro” perturbante. Difficile riconoscersi.

Per arrivare poi all’anomalo David Gahan, leader dei Depeche Mode, qui impegnato in un album solista annunciato dal singolo Kingdom.
Albertin racconta il fascino e la diversità di questo artista trasformandolo da umano a umanoide in grado di controllare la luce e rendere vivi gli spazi attorno a lui. Vampiresca creatura dalla bocca luminescente, bellissima figura senza volto, senza occhi, dove l’espressione è tutta contenuta in una brillante cavità di denti <i>Dave Gahan – Kingdom<i>” />feroci, il Gahan di Albertin vaga nella notte in un parcheggio sotterraneo, luogo di presenze malvagie, contamina una casa coloniale dai profili gotici, che inizia a pulsare, rispondendo agli stimoli della musica.<br />
Una casa infestata nello stile classico degli horror da Carpenter a Tobe Hooper, ma anche un richiamo alle favole, con un’inquietante foresta illuminata da lampi colorati, dove le presenze viventi sono ridotte all’osso, a piccoli insetti indifferenti. <strong>È l’uomo la vera figura assente, là dove case, alberi, macchine dialogano da sole attraverso la luce nella notte</strong>.<br />
Poi di nuovo il giorno trasforma ogni elemento turbante in chiarore innocuo. Rimane la paura per l’ignoto, per quella metamorfosi inspiegabile che è accaduta e che potrà accadere di nuovo.</p>
<p>• Vai alla <A href=Prima parte: 2003/2006 della monografia di Jaron Albertin

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