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Il gusto amaro della verità

Il gusto amaro della verità

L’inizio e il finale sono le parti più affascinanti di questo thriller. Contrastano forse volutamente con il ritmo frenetico e vorticoso che pervade tutto il resto della pellicola. Sono fatte di silenzi: quasi surreale quello dell’inizio (bruscamente spezzato da una fragorosa esplosione), ben più verosimile il secondo. Il finale del legal thriller non può non rapire l’attenzione del pubblico, con quel lunghissimo primo piano (ben tre minuti) sul volto di George Clooney, che riesce a sedurre lo spettatore non con la sua fisicità ma con la forza del messaggio comunicato dallo sguardo. Eh già, perché Clooney si trova l’onore e l’onere dei fari accesi e puntati sul suo ruolo d’attore, sulla qualità della recitazione e sull’espressività dell’interpretazione. Come dice lui stesso, “La maggior parte degli attori, se sono sinceri, potrebbero dire che, se la sceneggiatura è buona e il film ben diretto, il novantacinque per cento del loro lavoro è fatto”. Lui invece accetta la sfida di sostenere quel finale nel quale si va a depositare il “testamento spirituale” del film. E lo fa davvero bene. Con pochi ma significativi mutamenti d’espressione e con diversi sguardi lanciati in varie direzioni con differente carico di luminosità e intensità, riesce a trasmettere tutto l’intreccio di sentimenti che si sono fatti strada nel film man mano che la storia è andata avanti, nonché l’inevitabile bilancio della sua vita, e forse, perché no, anche dell’esistenza in generale, che un avvocato come lui non ha potuto far a meno di realizzare dopo tante e tali traversie.

A Michael Clayton è stata infatti concessa la preziosa opportunità di percorrere un lungo e tortuoso viaggio dentro di sé e di potersi alla fine guardare allo specchio, per scoprire di essere cambiato. Lui, che una volta «non era quello da uccidere, ma quello da comprare», alla fine si dimostra più forte e incorruttibile di quanto avesse creduto: alla fine non è neanche più, sempre per dirla con parole sue, «quello da comprare». Per far risaltare lo spirito imprevedibilmente eroico di colui che per tutto lo svolgimento del film ci siamo abituati a conoscere nei panni di un antieroe, Gilroy immerge Clayton in acque torbide e scure, in un’élite miliardaria e corrotta nella quale non traspare alcuno spiraglio di luce. E lo fa con un ritmo angosciante, conferendo alla maggior parte del film un andamento a dir poco vorticoso e disorientante. Si fatica a star dietro a quei repentini cambi di scena, ai continui mutamenti dell’argomento di conversazione fra i personaggi, e ai dialoghi serrati e veloci in cui le parole talvolta si susseguono come scariche di mitragliatrice.

Il linguaggio utilizzato è quasi sempre un gergo: talvolta a carattere legale, talaltra puramente di complicità fra colleghi d’ufficio, ma sempre e comunque un registro particolare, quasi da “addetti ai lavori”. Incalzano e si rincorrono in frequenti botta e rispost,a battute brevi realizzate facendo uso di numerosissimi sottintesi che spesso gli spettatori non hanno la possibilità di afferrare, essendo già distolti da un cambio di scena e impegnati nel decifrare una nuova conversazione. Ma la regina indiscussa del linguaggio impiegato in Michael Clayton è la metafora: onnipervasiva e quasi sempre complessa, spesso replicata e dilatata in catene di figure retorighe degne della poesia barocca. A complicare il tutto, come se non bastasse, ci si aggiungono anche le discrasie fra suono e immagine, sparse con copiosa abbondanza nell’arco dell’intera pellicola: vediamo infatti molto spesso alcune scene mentre udiamo, ancora o già, il dialogo fra i personaggi della scena immediatamente precedente o successiva. Coerente ed eticamente impegnato, Michael Clayton pecca infine di un montaggio all’insegna dell’eccesso di velocità.

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