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cultura dell'immagine e della parola

Shout it out loud

Shout it out loud

All you need is love di Gianmarco Zanrè ********

Che cos’è l’amore? Quanti e quali artisti, nel corso dei secoli, hanno affrontato la più grande fucina d’ispirazione messa dal Destino a disposizione dell’uomo? Innumerevoli, e ognuno a suo modo, filtrando vita vissuta e immaginata attraverso la propria sensibilità. Così come le storie d’amore, ogni tentativo può essere considerato unico e irripetibile, pur potendolo associare, in un modo o nell’altro, a ricordi appartenenti al passato. Kim Ki-Duk, prolifico, ermetico, magnifico narratore coreano, questo l’ha ben capito, o, se così non fosse, ha avuto una perfetta intuizione di questa straordinaria, mutevole e sfaccettata realtà: tutti i suoi lavori, dagli orizzonti violenti e fisici degli esordi ai fluttuanti aforismi delle opere più recenti, tendono inesorabilmente al bisogno che uomini e donne hanno di veicolare l’amore, sentimento che nasce da pulsioni che spesso sono violente e pericolose, ma che trovano equilibrio in gesti così delicati da sembrare più leggeri di fiocchi di neve, candidi e puri come solo gli occhi di un bambino possono essere.
Ancora una volta, dunque, portando in scena una variante più violenta e complessa di Ferro 3 (Bin-Jip, 2004), la storia di Yeon e Jang Jin è sfruttata dal regista come percorso di maturazione attraverso la sofferenza, la rottura di una barriera che trasforma l’isolamento – straordinariamente rappresentato non solo dalla casa e dalla prigione, ma dal mutismo persistente di una metà di ogni coppia – in possibilità, la violenza del passato – l’amplesso dei due protagonisti – nella leggerezza del futuro – le palle di neve lanciate in famiglia, il tutto orchestrato dall’invisibile presenza di un direttore d’orchestra, più che carcerario, che tanto rimanda alla figura del narratore, nonché del regista stesso.

Al contrario del già citato href=”http://www.hideout.it/index.php3?page=notizia&id=1011″ class=titolo>Ferro 3, in cui l’etereo protagonista fuggiva scomparendo ai suoi carcerieri eliminando il peso dell’anima, in quest’ultimo lavoro Kim Ki-Duk riporta la sua attenzione, e l’obiettivo della macchina da presa, a una liberazione più fisica e violenta, che passa, senza dubbio, attraverso la raffigurazione immaginata di stagioni e momenti felici – splendidi i siparietti musicali all’interno del parlatorio del carcere -, ma che trova la sua maggiore definizione nello scontro, aperto e fisico, con la realtà dei fatti. La scultura che Yeon distrugge, il bicchiere lanciato in testa al marito, gli schiaffi dell’amante, i muri della prigione incisi come pagine disegnate, i tentativi di suicidio, e di omicidio, divengono tutti viatici attraverso i quali la via pare essere non il superamento delle barriere, ma, al contrario, il loro stesso abbattimento. Inserito perfettamente in questa realtà più violenta è il personaggio, splendidamente tratteggiato in fase di scrittura, del compagno di cella innamorato di Jang Jin, incarnazione di gelosia, attrazione, senso di protezione e volontà di rottura: da antologia i passaggi dalla pace al conflitto, e viceversa, tra i due personaggi, culminati nella memorabile sequenza di chiusura della pellicola, in cui due “famiglie”, una da un lato e una dall’altro di questo muro di silenzio che solo da una parte è stato abbattuto, alla ricerca, in qualche modo, di una nuova risposta e, chissà, di una qualche, diversa forma di felicità. Se fossimo più vicini alla realtà da cui lo stesso regista proviene, potremmo anche supporre un ardito paragone con la situazione delle due Coree. Ma questa, come si usa dire, è un’altra storia. Chissà che un giorno, a Kim Ki-Duk non venga voglia di raccontarla. Nel frattempo, continuiamo a goderci l’attesa.

Lieve come un soffio, greve come il tradimento di Antiniska Pozzi ******

«Morire è possibile solo se non si ha altra scelta»: sono alcune delle parole che la protagonista dell’ultimo film di Ki-Duk oppone al silenzio di un uomo che non può, o non vuole, parlare. Un condannato, per l’esattezza, l’ultimo rappresentante di un’umanità sofferente e abbandonata a se stessa che si aggira in tutte le pellicole del regista coreano. Questo film non è un capolavoro. Non è neanche un’appendice di Ferro 3, come ha scritto qualcuno, ed è lontano dalle geniali intuizioni visive che innervano La samaritana (Samaria, 2004) e illuminano, a sprazzi, l’ultimo Time (Shi gan, 2006). Non ha la forza dell’apologo, non ha il potere della poesia. Ma è una storia, un pensiero, che vale la pena di sfrondare da quell’apparato macchinoso e concettoso di cui il regista lo ha dotato. Capita a tutti di parlarsi addosso, registi compresi, e stavolta Ki-Duk non fa eccezione, mettendosi addirittura nei panni di un direttore di carcere che osserva tutto col distacco che concede uno schermo televisivo, manovrando atti e fatti di una coppia che si forma sotto i suoi stessi occhi e solo grazie a lui. Così lo intravediamo riflesso nello schermo, così ammicca ai critici mettendo in bocca una battuta sibillina al marito di Yeon, così ci propone una serie di simbologie già viste nei precedenti film e altrove meglio declinate, in una struttura narrativa che sfiora la claustrofobia, mostrando in un alternanza quasi matematica scene del condannato in cella, scene del condannato in parlatorio con Yeon, scene di Yeon e di suo marito a casa.

Ma di cosa parla questo film? Di molte cose, come tutti i film di Ki-Duk, ma soprattutto di tradimento, nell’accezione più ampia del termine. Parla di come il tempo ci trae in inganno e ci fa tradire noi stessi, poi quelli che ci stanno vicino, poi ancora quelli con cui entriamo in contatto così, quasi per caso. Le quattro stagioni, non a caso, scandiscono il passare di un tempo interiore, non corrispondente al tempo reale, in un modo artificiale e kitsch che più umano non si può: è la voglia di accelerare, per creare un precedente, per creare una storia che non c’è, in fretta perché non c’è tempo, ma senza perdere nessuna tappa. Ti amo, quindi ti do la vita, e poi te la tolgo: in un soffio, lieve come sembra a chi tradisce un tradimento, almeno finchè non ne sia vittima a sua volta. Così, Yeon, tradita dal marito, lo tradisce a sua volta, tradendo inevitabilmente anche il suo nuovo disperato amante: un condannato a morte, appunto. Come a dire che ogni pace, ammesso che tale sia, è sempre frutto del dolore di qualcun altro. Un bel pensiero, supportato da belle immagini anche se prive della potenza a cui il regista coreano ci ha abituati. Un silenzio non carico, che divide il dolore con la violenza, con un muro inciso, con un autunno fittizio: ma pur sempre di dolore si tratta, e ha comunque qualcosa da dire.

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