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Psicoterapia da circo

Psicoterapia da circo

«In questo film ho voluto proporre il tema della timidezza perchè ritengo che questa sia un’emozione che appartiene alla maggior parte degli esseri umani di cui, però, molti si vergognano, tendendo a nasconderla e a soffocarla. […] A mio avviso, invece, un pò di riservatezza e di timidezza potrebbero rendere questa nostra vita meno volgare.
Spero che, con questo film, le persone timide riescano a vedere in questa loro intima emozione una fonte di ricchezza, una risorsa interiore che è l’eleganza della loro anima. Come dice una mia amica, è venuta l’ora che la timidezza diventi famosa.». Così Vittorio Muscia spiega la natura e lo scopo del suo film.

L’intento è encomiabile, non c’è che dire. Il risultato un po’ meno. Perché purtroppo non risalta l’eleganza della timidezza, soffocata dall’atmosfera posticcia che pervade l’intero film. In alcune scene sembra di ritrovare traccia dell’antico cinema di Méliès, dei giochi d’illusionismo e di magia. E gli effetti sono suggestivi. Come non del tutto prive di emozioni sono le scene che stringono verso il finale della proiezione, in cui Sandro incontra il se stesso d’un tempo: Sandro adulto e Sandro bambino sono davanti circondati da un bianco totale che li disperde in una dimensione che li astrae dal tempo. Ma forse proprio l’uso eccessivo di queste tecniche a effetto onirico e straniante ha sottratto alla pellicola lo spessore di realtà. Sembra inoltre che il regista non abbia saputo decidere se affrontare il tema con un punto di vista comico e disincantato oppure serio e riflessivo. Sono molte le pennellate di malinconia e in un certo senso anche di patetismo che si rinvengono nell’arco dell’intero film; alla fine lo spettatore è stato portato troppo vicino a De Vito e quasi reso complice del suo personaggio per poter sorridere “alle sue spalle”, ma al tempo stesso è stato anche sufficientemente abituato ai “giochetti” del Dott. O’Conner per credere all’incantesimo, alla definitiva soluzione del problema della timidezza, e per commuoversi davvero.

Benché questo film sia imbevuto di introspezione, tant’è vero che nel corso del suo svolgimento sembra che il protagonista affronti un vero e proprio viaggio dentro se stesso per arrivare a riconciliarsi con la sua interiorità, la psicanalisi che vi serpeggia più che suscitare effetti umoristici lascia a desiderare. O meglio, ciò che non soddisfa è la chiave di lettura con cui vengono presentate sullo schermo pillole di pseudopsichiatria dal sapore grottesco, elargite come fossero autentiche perle di saggezza. Non vogliamo mettere in dubbio l’efficacia della terapia Roosevelt, ma semplicemente prendere cinematograficamente atto che in questo film non c’è sviluppo del filone umoristico, perché sembra che tutta la comicità sia interamente affidata alla parola “water” e alla pronuncia particolare con cui il Dott. O’Conner la proclama, quasi fosse una miracolosa e rara formula magica a lui solo nota. Il water diventa una vera e propria persecuzione visiva nel momento in cui viene presentato continuamente: all’inizio fa il suo ingresso trionfale come oggetto scenico, introdotto da un’infermiera assistente di O’Conner, poi ritorna nell’immaginazione di Sandro e miete un numero esorbitante di vittime: tutti finiscono ai suoi occhi per sedersi sul famoso wc, nessuno escluso. Il trionfo decisivo del water avviene nella scena collettiva in cui di questi “oggetti” ne compaiono uno per spettatore, quando Sandro è costretto a parlare davanti a un numeroso pubblico dalla terapia d’urto della “spallata”. Dal punto di vista narrativo anche quest’ultima trovata (consistente nel costringere letteralmente con la forza il soggetto timido a parlare di fronte a un numeroso uditorio) si fa poco apprezzare perché non comporta alcuno sviluppo: semplicemente anziché demolire la presunta superiorità dei suoi interlocutori sottoponendoli uno per volta alla tortura di immaginarseli sul water, Sandro si trova per la prima volta a immaginarsi tutto un pubblico in quella quanto meno particolare situazione. Insomma, la quantità vince sulla qualità. Un discorso analogo è sostenibile anche per altri effetti scenici: pensiamo alla poltrona rossa che si alza fino al soffitto dello studio di O’Conner per far toccare con mano a Sandro quanto le prospettive abbiano a che fare col senso di inferiorità e superiorità. Quell’enorme poltrona dalla forma tondeggiante sembra la materializzazione di un’iperbole, e forse Terapia Roosevelt ha proprio esagerato. Gli ambienti in cui si svolge la vicenda perdono via via credibilità e il contatto con l’esperienza reale sembra smarrirsi definitivamente: tutto ciò vale non solo per le sale in cui si svolge la terapia, ma anche per le scene conclusive girate in esterni, in cui la luce è innaturale e artificiosa. Mentre scorrono i titoli di coda gli spettatori prendono congedo, sollevati al pensiero di esser stati tranquillamente seduti nella sala del cinema su innocue e tranquille poltrone.

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