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Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol

Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol

Un nome può segnare un destino? Se sì, quale potrebbe essere il destino di un newyorkese di origine bengalese che si chiama Gogol?
La vita di Gogol Ganguli è tutta racchiusa in quel nome, cambiato in Nickhil, detto Nick, e poi ricambiato in Gogol.
I genitori scelgono come nome quello del romanziere russo-ucraino che visse metà della sua vita in patria e metà in terra straniera, proprio perchè rappresenta l’esempio calzante della loro esperienza a metà tra due culture. Tramite il nome, vogliono fornire al loro primo figlio anche la chiave critica della sua vita e della sua esistenza. Un codice che l’adolescente Gogol rinuncerà a comprendere, perchè ancora troppo immaturo. «Siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol» dirà il padre al figlio, citando Dostoevskij, per fargli capire la sua scelta, ma il giovane non lo degnerà di considerazione perché non ha ancora viaggiato nella vita e quelle parole gli sono incomprensibili.

Mira Nair, la regista indiana più nota al mondo, torna a indagare il rapporto tra occidente e India, ovest e est, lo straniero in terra straniera. Un rapporto raccontato attraverso venticinque anni della storia di una famiglia indiana-bengalese a New York. Ma anche, e ben più interessante e originale, attraverso le due anime di un uomo. Il piccolo Gogol cresce infatti in bilico tra le tradizioni della sua famiglia e l’American way of life. Da bambino non sentirà le pressioni dell’ambiente circostante ma crescendo sentirà l’esigenza di conformarsi e di rendersi più comprensibile agli altri. Messo di fronte alle scelte che la vita gli riserva, come un novello Adamo, Gogol/Nickhill/Nick sceglierà il proprio nome e, nominandosi, esisterà ogni volta in una nuova forma.
Il film indaga quindi la ricerca dell’identità di un uomo e di un popolo, attraverso lo scontro e l’integrazione tra radici culturali lontane nello spazio, ma vicine nel cuore e, a volte, a malincuore. Una crescita segnata dall’ambivalenza di una formazione che a tratti fa emergere il bengalese Gogol che si rasa i capelli in segno di lutto, e l’americano Nick che ascolta i Pearl Jam a tutto volume. Una ricerca reale e spirituale, spesso inconsapevole, che conduce irrimediabilmente verso la maturità e il proprio destino. Quando l’ex ragazzino, ormai adulto, ritroverà il libro regalatogli dal padre, finalmente potrà capire perchè siamo usciti tutti dal cappotto di Gogol: in una società multietnica e multirazziale l’unica via è quella della conoscenza del proprio passato, per poterlo integrare al presente e andare incontro a un futuro privo di rimpianti.

Mira Nair, indiana che vive in America, sente molto questo tema. Lo aveva già indagato in altri film precedenti come il musical Monsoon Wedding (id., 2000) che vinse un contestato Leone d’Oro a Venezia, grazie alla determinazione dell’allora presidente della giuria Nanni Moretti. Dopo aver lavorato in due produzioni americane dal risultato deludente, La fiera della vanità (Vanity Fair, 2004) e Gli occhi della vita (Hysterical Blindness, 2002), torna alle sue origini. Il risultato non è del tutto riuscito, appesantito da un ritmo troppo ripetitivo e da una certa ridondanza nel ripetere il già detto. Il film rimane beffardamente incolore e poco speziato, nonostante la connotazione indiana indurrebbe a pensare al contrario. Eppure il crescendo emotivo della parte finale riesce nell’intento di coinvolgere lo spettatore che non vede l’ora di scoprire quale sarà il destino di quel nome.

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