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cultura dell'immagine e della parola

La sposa perfetta

Il termine “americanata” designa tradizionalmente un prodotto comunicativo (tipicamente un film d’azione) che si distingue per la propria inverosimiglianza e per l’eccessiva spettacolarizzazione che tende a renderlo pacchiano. Orbene, lettori cari, è giunto il momento che noi puristi della lingua si dia una rinfrescata al nostro vocabolario, inserendovi una nuova categoria: l’italianata. Che poi è l’equivalente dell’americanata di cui sopra, ma con tre varianti significative.
Primo, il regno di elezione dell’italianata è il reality show di prima serata.
Secondo, all’inverosimiglianza in quanto tale si sostituisce l’adesione acritica e grottesca a uno stereotipo (uno qualsiasi: può essere il contadino gretto, la valletta svenevole o il secchione imbranato, per fare qualche esempio).
Terzo, alla spettacolarizzazione viene preferita la melodrammatizzazione. Non si cerca quindi il massimo impatto estetico, quanto il massimo impatto emotivo (il cosiddetto “effetto Mariomerola”).

Prendiamo La sposa perfetta (Raidue, mercoledì, ore 21). Un reality discutibilissimo che, principalmente a causa del terribile momento di stanca che la Tv italiana sta vivendo, è riuscito a ritagliarsi uno spazio considerevole presso il grande pubblico. Ecco, questo è il prototipo dell’italianata. Per averne la prova è sufficiente confrontarlo con un prodotto per certi versi analogo: quel Date my Mom (2004) che Mtv ha importato sulla scia di altri piccoli fenomeni di culto statunitensi come Room Raiders o Pimp my Ride. Lo spunto di partenza, se ci fate caso, è analogo. In entrambi i casi, infatti, il format prevede la presenza di ragazzi e ragazze in cerca di accoppiamento al cospetto delle proprie genitrici. Certo la realizzazione è ben diversa.
In Date my Mom il concorrente di ciascuna puntata esce con tre mamme, scegliendo sulla base degli appuntamenti la figlia che poi conoscerà di persona e con la quale si suppone darà il via a un love affair (ma questo è lasciato all’immaginazione dello spettatore, visto che si tratta di episodi autoconclusivi). Un processo semplice e immediato, che si svolge in meno di mezz’ora di programma e non lascia strascichi di alcun tipo.
Il meccanismo di gioco di La sposa perfetta, invece, prevede la convivenza tra uno stuolo di fanciulle, un branco di ragazzi e le loro madri iperprotettive. Tramite mille eliminazioni e altrettante infinite prime serate, si arriva nel giro di due mesi abbondanti a isolare una singola coppia, benedetta – appunto – dalla madre di lui.
A conti fatti ci troviamo quindi di fronte a due format antitetici, indicativi delle differenti culture che li hanno generati.

A partire dai titoli.
Il programma americano è chiaramente un invito all’edonismo: “esci con mia mamma”. Ovvero, “non accontentarti della mia adolescenza in fiore! Assaggia anche la maturità sottilmente peccaminosa di chi mi ha messo al mondo! La gallina vecchia ha dell’ottimo brodo da offrirti!”.
In Italia questa libertà viene negata per principio. La protagonista è “la sposa perfetta”. La SPOSA, capito? Nessun invito al peccato o all’avventura scabrosa. Un titolo che piacerebbe perfino a monsignor Bagnasco: qui si evoca una figura muliebre rassicurante e istituzionale, che profuma di pasta fatta in casa e camicie stirate.
E questo ci porta direttamente al cospetto dello stereotipo grottesco.
La mamma di Mtv funge da sponsor della propria bambina, presentandone le grazie al pretendente di turno nel corso di un appuntamento galante. Nel format Rai, invece, la signora è una suocera nel senso italiano (e deleterio) del termine, e in quanto tale deve fare le pulci e massacrare con gioia la fanciulla (per definizione indegna) che osa proporsi al suo figliolo.
Riuscite a cogliere il ribaltamento di prospettiva? Da una parte una mamma “facilitatrice”, che spinge la ragazza nelle braccia del giovanotto, dall’altra una mamma “portatrice di discordia”, ben compresa nel ruolo di dolce megera che preserva la solitudine del proprio bambino.

Da qui al melodramma, poi, il passo è breve.
Nella migliore tradizione del reality di casa nostra, le puntate settimanali – della durata di oltre due ore – si sviluppano in forma di gigantesche sedute psichiche collettive sul filo dell’isteria, abilmente rintuzzata da un Cesare Cadeo liscio come l’olio e da uno stuolo di opinionisti agguerriti.
[img4]Il tutto condito da prove di forza, prove di canto, filmati preregistrati e addirittura dall’innesto di un sotto-programma, il Furore che già ci fece rabbrividire ai tempi di Alessandro Greco.
Altro che America. Lì il conduttore non c’è nemmeno: Date my Mom procede in rapidità e scioltezza in forma di montaggio, senza commento se non quello offerto in favore di telecamera dai concorrenti stessi. Una formula minimale e proprio per questo accattivante, nella sua spensierata leggerezza. Un’economia di linguaggio che noi, per ora, possiamo solo sognarci.
Chissà, forse un giorno anche la Tv nostrana arriverà a scoprire l’acqua calda.
Nel frattempo, ripetete con me: I-TA-LIA-NA-TA, I-TA-LIA-NA-TA… (sob).

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