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Lui quella sera era un lampo e guardarlo era quasi uno shock

Lui quella sera era un lampo e guardarlo era quasi uno shock

Che Luchetti sia un regista che tratta argomenti difficili con toni leggeri è cosa nota e, d’altronde, molto gradita. E’ uno di quei pochi, nel cinema italiano, che ha raccontato le nostre vite sempre genuinamente e con una verve fresca e sarcastica che lo ha reso un autore speciale.
Dopo il mezzo passo falso (tanto di giudizio critico, quanto di botteghino) di Dillo con parole mie (2003) il regista romano si è ispirato ad un ossimoro romanzato, ovvero, Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi. E questa trasposizione, a film visto, si può dire pienamente riuscita.

La veridicità della provincia ricostruita (quella della zona di Latina), colta tanto nelle sue difficoltà economiche (il disagio dei senza tetto), quanto nelle sue manifestazioni culturali sussultanti (le permanenze fasciste contro le file rosse sempre più incombenti), è veramente da apprezzare, e non solo per il fedele rispetto geografico.
I personaggi sono ben delineati, a partire da Accio, figura che riflette la sua epoca, tanto per la mobilità ideologica, che ben connota la confusione culturale d’allora, quanto per la sua pronunciata conflittualità interiore, magnificamente rappresentata all’inizio del film con una fede rigettata e un percorso formativo fatto di botte e pugni, più che di seminari.
Accio è una linea curva, corpo che subisce, tanto fisicamente quanto ideologicamente, ma nel suo essere c’è il segreto di una generazione e di una parte dell’Italia che stava nascendo.
Manrico, invece, è il corpo che agisce, che occupa, che prevarica, che racconta attraverso la sua bellezza.
I loro abbracci sono lotte che si spengono; le loro strette di mano sono violenze celate.

Il loro rapporto, abbandonandosi alla mitologia classica, sembra essere proprio paragonabile a quello di Romolo e Remo, nella loro demarcazione territoriale e nel loro tenersi testa.
Nonostante tutto, la loro relazione è densa, vera e ci intriga osservare questi fratelli che, mentre si vogliono bene, si raccontano bugie gravissime.
Il film vince la sua sfida soprattutto perché Luchetti, con maestria, sorvola qualsiasi inclinazione politica: ride dei fascisti e dei loro modi ignoranti, così come si prende gioco dei comizi comunisti, dove ognuno può prendere la parola, finendo per generare uno sterile disordine.

Nonostante tutto, sarà proprio Accio, alla fine del film, ad avere una coscienza di resistenza e un sentimento di lotta intelligente che, inevitabilmente, lo renderanno eroe.
La canzone di Nada con cui termina il film è si fonde perfettamente con la sua figura: il suo amore disperato, così confuso, alla fine ha generato un senso ed un’azione precisa, mentre le lotte in fabbrica di Manrico hanno prodotto solo ipocrisia e corruzione.
E’ davvero questo Accio /Elio Germano un lampo che colpisce (sempre per usare parole della cantante Nada) con la bellezza dei suoi tratti psicologici: in fondo è lui, modello degli anni ‘60, il padre di tutti noi, sbandati dagli anni ‘80 in poi.
Mio fratello è figlio unico insegna la storia con delicatezza, racconta qualcosa sull’identità degli italiani, perché questo futuro non dimentichi il passato, perché possa nascere altra resistenza e lotta intelligente.

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