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Il dramma delle cinespalle

Telespalla Mel, Bubu, Will il Coyote, Silvestro. Tante telespalle dell’animazione a cui siamo così affezionati hanno preso vita con un cruento destino già deciso.
Le cinespalle, cioè i mal riusciti compari cinematografici di buoni libri, nascono peggio: c’è sempre qualcuno subito pronto a trovarvi ogni sorta di difetti, a sminuirli e a classificarli come meri tentativi. Il recente Correndo con le forbici in mano (Running with scissors), opera prima del regista di Nip/Tuck, è la più esemplificativa versione di questa tendenza ormai annosa. L’omonimo memoir di Augusten Burroughs è uno dei maggiori bestseller sul mercato americano attuale.
Da noi è stato pubblicato da Alet, che ne ha nobilitato la copertina con la canonica fascetta pubblicitaria del caso. Augusten è un ragazzino introverso, dedito a poche cose, ma con mania: la scrittura, le acconciature per capelli, la cura per l’abbigliamento e i suoi progetti per il futuro. Nell’America anni settanta, è sballottato tra un padre alcolizzato (Alec Baldwin) e una madre (Annette Benning) poetessa e depressa; fino ad approdare alla sghemba famiglia dello psicologo di lei (Brian Cox), i Finch.

Decisi sono i richiami ai predecessori del genere come I Tenenbaum e American Beauty, ma di questi sono persi il vigoroso humour e la pazienza grottesca e veritiera del racconto. Annette Benning, Brian Cox, Joseph Fiennes sono attoroni che ci hanno provato. In questo dramedy si è provato e basta. Di fondo c’è una istintività d’espressione che però spesso finisce per sfociare in volgarità autoreferenziale. Un’irrefrenabile voglia di portare Messaggi e distribuire Verità vena i dialoghi del film, ai quali lo stesso Burroughs si è ribellato, arrivando a disconoscere l’intero lavoro. Una trama che insiste su una linea controcorrente più per moda che per una reale utilità: le battute di alcune scene, che vorrebbero essere profonde, ricordano le chiacchere di quelle gite in cui è necessario stordirsi e stare alzati fino a notte alta. Una psicologia da 6 politico serpeggia e cerca di contagiare con la sua banale teatralità, mostrando le vite in frantumi dei protagonisti.

Il libro dal canto suo non è più tenero o meno vero, ma è dotato di un occhio meno melodrammatico. Non ci sono urla, pianti e casini che emergono stilisticamente: è un’opera che si filtra da sé, grazie a un narratore così diretto e chiaro da risultare infantile (geniale la domanda sull’origine dei pelucchi e su come si formino nell’ombelico). Il libro è un inno alla strizzata d’occhi, alla libertà di costumi e alla passione per come si è venuti al mondo. L’omosessualità di Augusten è spesso vissuta spudoratamente eppure non crolla mai di fronte alla società, come invece accade a massime esistenziali come «Tutti i medici sono brave persone e da grande voglio diventarlo anche io».

Il “fenomeno cinespalle” ha assunto qui proporzioni nuove: pusillanime è il film che non ha saputo portare sui volti dei suoi interpreti quella chiave d’interpretazione del mondo che Burroughs ha così argutamente scovato e proposto, fondandosi intelligentemente sulle mancanze fisiologiche degli esseri umani e sul loro essere, a volte, davvero sbagliati.

Correndo con le forbici in mano, romanzo di Augusten Burroughs, 2002
Correndo con le forbici in mano, regia di Ryan Murphy, 2006

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