hideout

cultura dell'immagine e della parola

Nel labirinto di specchi

Due semplici considerazioni riguardo a Richard Linklater. Primo: si tratta di un ragazzone coraggioso. Secondo: di fronte a un’impresa a dir poco ostica quale l’adattamento cinematografico di Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly, 1977) del sommo Philip K. Dick, al regista texano va riconosciuto il merito di aver sfoderato senso pratico e ingegno, portando a casa un risultato apprezzabilissimo, pur generando nello spettatore, bibliofilo e non, qualche inevitabile perplessità.

Per quanto riguarda il capitolo “coraggio”, è sufficiente sfogliare le quattrocento pagine del volume originale per rendersi conto di quanto il materiale di partenza fosse complesso, cervellotico, labirintico e insieme potente. La storia di Bob Arctor, agente della Narcotici infiltrato tra i tossici e spinto nel nome di un disegno superiore a perdersi in una spirale autodistruttiva di paranoia, è resa dall’autore attraverso una scrittura prodigiosamente cristallina e precisa, che riga dopo riga scende fitta sul lettore, fino ad affogarlo.
Quando si parla di Dick, d’altra parte, su un elemento sono tutti d’accordo: la definizione di “scrittore di fantascienza” è, se non falsa, quantomeno semplicistica. In tutta la produzione del romanziere di Chicago, la riflessione di fondo non è mai improntata sul futuro in sé, che funge semplicemente da scenario, quanto sull’impossibilità da parte dell’uomo di distinguere il reale dall’irreale. Un tema questo sviluppato di volta in volta secondo le prospettive più diverse. In La svastica sul sole (The Man in the High Castle, 1962), ad esempio, l’interrogativo viene posto riguardo alla realtà storica (chi ha vinto la Seconda Guerra Mondiale?); mentre in Ubik (1969), il dubbio si fa prettamente ontologico (siamo vivi, morti o semi-vivi?).
In A Scanner Darkly, il centro del dubbio è invece la percezione. Ciò che vedo è ciò che esiste? Il mio cervello e i miei sensi mi dicono il vero? E cosa succede quando il cervello entra in conflitto con se stesso e quindi con i sensi? La risposta sta appunto in una scrittura debordante, un flusso ininterrotto di informazioni, nozioni, riflessioni, distorsioni, digressioni e contraddizioni, che l’indomito Richard Linklater ha provato a condensare in meno di due ore attraverso le immagini.

E così arriviamo alla questione dell’ingegno. L’adattamento di Linklater è infatti una perla di buonsenso e razionalità. Non potendo trasferire su pellicola il logos di Dick, il regista ha optato per uno stile visionario, che saziasse l’occhio così come i paragrafi del romanzo saziano il cervello.
Saggiamente (ma qui conta anche la scarsezza di budget), la scelta artistica è caduta sulla tecnica del rotoscopio, d’impatto meno immediato della grafica digitale, ma più rispettosa degli interpreti.
Mossa felice per almeno due motivi. Innanzitutto perché Dick è uno scrittore da cogliere nelle sue sfumature e nella psicologia dei suoi personaggi, non nella mera spettacolarità. E poi perché quando si ha un protagonista come Keanu Reeves – magari non troppo versatile ma sempre eccellente in questo tipo di ruoli – due caratteristi di lusso come Woody Harrelson e Winona Ryder, e soprattutto un Robert Downey Jr. in stato di grazia (ai livelli del Johnny Depp di Paura e delirio a Las Vegas), tutto si può fare meno che tarpar loro le ali con inutili effetti speciali.
All’aspetto visuale si aggiungono poi dialoghi selezionati e riproposti con sapienza direttamente dalle pagine libro e una costruzione narrativa abbastanza solida, anch’essa mutuata dall’originale di Dick con qualche semplificazione e meno colpi di scena.

Tutto bene, quindi? Quasi tutto, come segnalavo un paio di paragrafi fa.
Il problema di fondo di questa pellicola rimane proprio il suo non aver staccato del tutto il cordone ombelicale dal romanzo dal quale è tratta, cercando di accontentare sia gli spettatori che lo hanno letto, sia quelli che forse lo leggeranno in seguito. Ai primi però, a dispetto del buon rigore filologico col quale il testo viene messo in scena per quasi tutto il film, non può non bruciare la fretta col quale la storia viene chiusa in un finale nel quale viene inspiegabilmente riassunto in poche battute un passaggio – quello all’interno della clinica – d’importanza capitale.
[img4]Ai secondi invece, è proprio il rigore col quale viene ricreata l’architettura dickiana a creare qualche problema: c’è troppa carne al fuoco e la comprensione dell’intricata trama ne risente.
Un peccato certo non mortale per un film comunque degno di nota, che forse avrebbe dovuto osare di più, sviluppando per intero i passaggi romanzeschi. O anche di meno, semplificandoli quanto basta per non farne un’opera “da iniziati”.

Curiosità
Nel 1974, su richiesta del regista francese Jean-Pierre Gorin, lo steso Dick scrisse la sceneggiatura per un film tratto da Ubik che purtroppo non fu mai girato. In Italia l’adattamento è stato pubblicato da Fanucci nel 1999, insieme al romanzo.

A Scanner Darkly, 1977, romanzo di Philip K. Dick
A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare, 2006, regia di Richard Linklater

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»