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Intervista a Paul Verhoeven

Dopo tante produzioni americane, da RoboCop a L’uomo senza ombra, passando per Atto di forza e Basic instinct, l’olandese Paul Verhoeven torna a dirigere un film in patria: Black book.

Verhoeven torna a lavorare in Olanda dopo venti anni di successi hollywoodiani. E’ stato felice del ritorno?

Sono stato molto felice. Finalmente, potevo realizzare una sceneggiatura alla quale Gerard Soeteman ed io avevamo lavorato per vent’anni: non riuscivamo a trovare il giusto epilogo per la nostra storia. Il punto di partenza era sempre lo stesso: un gruppo di ebrei tradito e massacrato nella zona fluviale dei Paesi Bassi e la ricerca ossessiva del traditore. Ci immaginavamo un ragazzo per protagonista, il che costituiva un problema, poiché non sapevamo come farlo infiltrare in modo credibile tra gli ufficiali tedeschi. Tre anni fa Gerard trovò la soluzione: la protagonista sarebbe stata una donna. L’intricata matassa di scene che avevamo in mente si è all’improvviso dipanata fino a trovare il giusto finale.

Come descriverebbe Black book?

Come un thriller ispirato a eventi reali. Tutte le storie in Black book si possono ricondurre a dei fatti realmente accaduti. La maggior parte dei personaggi sono ispirati a persone davvero esistenti all’epoca della nostra storia.

Il Libro Nero del titolo è esistito veramente?

Certo, sono stati scritti molti articoli al riguardo. Gerard ne aveva letto per la prima volta in Moordenaarswerk (Lavoro da assassini) di Hans van Straten, un libro pubblicato negli anni sessanta in Olanda. Ha pensato subito a farne la base di una sceneggiatura. Il libro nero in questione era l’agenda dell’Avvocato De Boer, una donna che fu uccisa per mano di ignoti subito dopo la fine della guerra. La De Boer aveva trattato durante la guerra con il comando dei tedeschi all’Aia e con la resistenza per cercare di evitare inutili spargimenti di sangue: molto spesso i tedeschi uccidevano i loro ostaggi per vendicare le uccisioni dei prigionieri della Resistenza. Io stesso ricordo di aver visto da bambino numerosi cadaveri all’Aia. Comunque, il libro nero della De Boer, contenente probabilmente i nomi dei più insospettabili traditori e collaboratori, non è mai stato ritrovato.

Soldato d’Orange è stato definito una storia eroica. Come definirebbe Black book?

Come una correzione all’eroico Soldato d’Orange. In Black book, molto realismo è aggiunto alla storia. E’ il motivo principale per cui ho voluto fare questo film: un’opera spettacolare per mostrare la realtà di quei giorni. Non solo bianco o nero, ma molti toni di grigio. Il film si rifà infatti al libro Grijs Verleden (Passato grigio) scritto da Chris van der Heyden nel 2001, in cui la storia viene ripresentata in una nuova chiave di lettura. Nelle interpretazioni tradizionali, i Paesi Bassi e i suoi partigiani vengono ritenuti degli eroi indiscussi, contrapposti ai nazisti cattivi. Van der Heyden assume un punto di vista postmoderno, aperto a più interpretazioni. E’ sbagliato dividere i protagonisti della storia in eroi e malvagi. Eroismo e crudeltà sono spesso le due facce della stessa medaglia. Non di rado, personaggi ritenuti dei veri e propri eroi sono poi caduti dal proprio piedistallo.

Lei sottolinea però che Black book è anche spettacolo.

Certo, il cinema è un ibrido sorprendente di arte e commercio. L’ideale è combinare brillantemente questo dualismo: un film di pregio che in più attiri un pubblico numeroso. Aspiro sempre a un risultato del genere. Un film capace di intrattenere il più vasto pubblico possibile, dal professore universitario alla cassiera, e che mantenga intatto il suo valore nel tempo. A parte David Lean, ci sono riusciti in pochi.

Quali dei suoi film pensa che abbiano un valore eterno?

I miei film già sopravvissuti a un ventennio sono Fiore di carne e Soldato d’Orange.
Stimo molto anche Il quarto uomo e Schizzi, ma non credo che Che cosa vedo? o Keetje Tippel…quelle notti passate sulla strada avranno la stessa sorte.

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