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Un esattore in cerca d’autore

Un esattore in cerca d’autore

Questa è la storia di un uomo chiamato Harold Crick. E del suo orologio. E del mondo che li circonda. Un mondo che agli occhi di Harold è regolato da un ordine geometrico-matematico e nel quale le giornate scorrono tutte uguali, bagnate in un mare di apatia, ripetitività, abitudini. Fino a un mercoledì apparentemente qualsiasi, quando all’improvviso Harold sente una voce. Non è una chiamata divina, né una forma di schizofrenia, né il richiamo del suo cuore, bensì le parole di una narratrice onnisciente. Si tratta di Kay Eiffel, autrice colpita dal blocco dello scrittore che racconta tutto quello che lui fa e pensa.
Come se non bastasse, la voce predice ad Harold che la morte incombe sul suo destino. Un fatto che sconvolgerebbe chiunque, figuriamoci il povero esattore delle tasse alle prese per di più in quei giorni con Ana Pascal, un agguerrita pasticcera rivoluzionaria che non vuole pagare quella fetta di tasse corrispondente agli investimenti militari americani. L’unico in grado di aiutare Harold è il professor Jules Hilbert, esperto letterario che lo guiderà verso la scoperta della surreale verità: Harold è il personaggio di un romanzo. Il problema ora è capire, come insegna Calvino, se il libro vuole comunicare la persistenza della vita (Harold vivrà quindi in una felice commedia) o l’ineluttabilità della morte (morirà in una tragedia). Nel frattempo scopriremo come sono le piccole cose a dare un senso ai nostri giorni: la musica di una fender stratocaster con il suo richiamo rock, il sapore di un biscotto intinto nel latte, la pelle di una guancia che sfiora la tua mano, un orologio premuroso.

Siamo insomma con i piedi nudi sui terreni, seppure con una forma diversa, di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 1999 – l’ufficio di Harold ricorda anche esteticamente l’alienante e asettico posto di lavoro di Neo) e The Truman Show (id., Peter Weir, 1998), senza che il film abbia la forza dei due capisaldi del cinema postmoderno. Vero come la finzione però funziona bene: piace la regia di Marc Foster, capace di mostrarci i numeri che quotano le nostre giornate. Viene così ben supportata la sceneggiatura di Zach Helm (da molti già accostato al Charlie Kaufman di Essere John Malkovich o Il ladro di orchidee, anche se dovrà fane di strada per raggiungere i livelli del suo più famoso – oltre che più inquietante e profondo – collega), grazie anche al cast ottimamente assortito. Vediamo così un Will Ferrell nuovo, capace di far ridere con intelligenza, una Maggie Gyllenhaal di cui non scopriamo oggi le capacità seduttive, una Emma Thompson in versione nevrotica-ossessiva e il sempre convincente Dustin Hoffman nei panni di un professore alle prese con trame e schemi letterari che, come secondo lavoro, fa il bagnino nella piscina del campus.

Insomma, un buon prodotto divertente e piacevole. Un colpo di genio finale avrebbe potuto far fare il salto di qualità definitivo. Ma il regista – come la Kay Eiffel del suo film – si accontenta, quando deve decidere il finale, di realizzare un’opera discreta e non un capolavoro.

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