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Sotto lo sguardo della fantascienza

P. D. James è considerata una delle migliori autrici di gialli e c’è chi l’ha definita l’erede di Agatha Christie. Paragone mandato giù con un po’ d’amaro da James che non ritiene che la scrittrice inglese abbia mai avuto il vero talento della romanziera. «De gustibus non disputandum est» dicevano i latini che non amavano le polemiche. E anche per noi non è il caso di addentrarsi in diatribe e discussioni, tanto più che il libro I figli degli uomini, che ha ispirato l’omonimo film di Alfonso Cuaròn, non è nemmeno un giallo, ma un romanzo di fantascienza.

James abbandona la yellow story per dedicarsi, con questo libro ambientato nel futuro, all’analisi della società, allo studio delle sue debolezze e dei suoi difetti e all’inevitabile catastrofe finale, alla quale è predestinato un mondo che non si preoccupa di se stesso.
L’abbiamo visto fare da Orwell in 1984 e da Dick in Blade runner, ma mentre i due scrittori hanno prodotto dei veri e propri capolavori il risultato della James non è altrettanto entusiasmante.

Al libro manca la colonna portante. Manca cioè una buona ambientazione all’interno della quale svolgere le fila del racconto. I protagonisti si muovono in una specie di limbo, di tempo inesistente, che potrebbe essere indiscriminatamente futuro o passato. Il tema di fondo è potenzialmente interessante: l’uomo non è più in grado di procreare e pertanto è diventato una razza in estinzione. Ma la scrittrice non approfondisce né analizza la situazione con la giusta prospettiva.
Tutto il romanzo è incentrato sulla figura del protagonista, un uomo di mezza età disilluso nei confronti della vita. L’incontro con un gruppo di sovversivi, tra cui l’unica donna incinta del pianeta, stravolgerà profondamente la sua piatta esistenza. Purtroppo non la noiosa lettura.
James scrive con un pietra invece che con la penna. Il libro si trascina. Persino nei momenti di maggior tensione si dilunga, s’attarda, perde tempo e perde pathos. Fioccano conversazioni esistenzialistiche e dialoghi improbabili a esplicito scopo educativo, che James utilizza biecamente per mettersi in cattedra ed esprimere le proprie idee e le proprie critiche nei confronti della società. Non riesce a superare la sindrome del detective che deve spiegare in maniera chiara, punto per punto, come ha fatto a incastrare l’assassino.

Fortuna vuole che la rivisitazione cinematografica sia finita nelle mani di Alfonso Cuaròn.
La stessa vicenda rinsecchita, che per pagine e pagine aveva fatto sbadigliare, subisce una vera e propria metamorfosi grazie a una sceneggiatura avvincente, ricca di colpi di scena e di azione. Senza trasformare il film in una americanata priva di significato, il regista riesce a produrre un’opera al contempo di piacevole visione e ricca di messaggi morali. Anche i protagonisti ci guadagnano in umanità e simpatia. [img4]Peccato solo per l’agghiacciante doppiaggio della ragazza incinta, fastidioso e fatto male.
Ma la miglior performance del regista è senza dubbio la messa in scena. Cuaròn ha fatto un lavoro, tra riprese con camera a mano e scelta della fotografia, assolutamente ineccepibile. Il film potrebbe essere anche muto per quanto riesce a essere espressivo a livello visivo. Viene da chiedersi come abbia fatto Cuaròn ad arginare con tanta bravura l’incontrollabile valanga di parole che sommergono il lettore.
E Agatha Christie potrà anche essere considerata una scrittrice senza il talento della romanziera ma di certo, almeno gli sceneggiatori, oggi l’apprezzeranno un po’ di più: i suoi testi non li hanno mai costretti agli straordinari.

I figli degli uomini, romanzo di P. D. James, 1999
I figli degli uomini, regia di Alfonso Cuaròn, 2006

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