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Il sogno americano a ritmo di blues

Il sogno americano a ritmo di blues

Tre ragazze ingenue, abbigliate con abiti cuciti in casa e con un grande sogno, affrontano titubanti l’ennesimo palco in cui aspiranti cantanti si sfidano in una cara di canto amatoriale. Curtis, un venditore di auto-usate (professione che il cinema americano associa spesso al venditore di sogni) e produttore musicale in erba si fa loro incontro portatore di notizie che sembrano riportarle con i piedi per terra. Il primo premio non spetta a loro. Le ragazze si disperano ma Curtis ha altro in serbo. Vincere il concorso sarebbe stato troppo poco per loro, e l’uomo propone un vero contratto. È l’inizio di una rapida ascesa fatta di corruzione e amicizie, perché già negli anni cinquanta il mondo dello show business era corrotto (o forse è una metafora di quello moderno). Il blues potente di Effie è uno strumento di Dio, una voce capace di fare tremare i pavimenti delle sale di incisione ma gradualmente Curtis, da vero show-business man, comprende che i veri risultati si ottengono con una voce più anonima, con ritmi più ascoltabili, con melodie ballabili e con una donna più attraente. La giunonica Effie viene scalzata dalla bellissima, ma insipida Deena (interpretata dalla cantante Beyoncé) e sia nel terzetto musicale che negli affetti di Curtis, è l’inizio del crollo. Effie si allontana dal gruppo nel periodo di maggior successo e cade in disgrazia, portando in grembo il frutto del suo amore con Curtis. Le Dreamgirls vengono poi affiancate a un blues man sregolato, un Eddie Murphy che nonostante le smorfie del suo repertorio è perfettamente in parte, un gradino alla volta raggiungono una propria identità fino ad arrivare al numero uno della classifica americana. Il gioco però è sporco, chi lo sa chiude gli occhi e finge di non sapere, come un castello di carte senza fondamenta è destinato a crollare.

Attraverso i decenni la storia delle Dreamgirls ripercorre la storia della musica e del costume americano. Dai ritmi musicali alle parrucche afro, dagli oggetti di design al taglio degli abiti, tutto segna lo scorrere del tempo, le diverse epoche che si susseguono. Tutto è curatissimo, tutto è perfetto e iperpatinato. La major Sony firma le canzoni della colonna sonora, decisamente di ottimo livello considerato che fra le otto nomination all’Oscar ottenute da Beyoncé e compagne ben tre appartengono alla categoria “miglior canzone”: forse un record. La perfezione però ha un costo, e il risultato ha una pecca imperdonabile: non ha anima. L’anima è il motore trascinante della musica black, dal blues al soul, ma qui non si vede, nonostante l’ottima interpretazione di Jennifer Houston, esordiente al cinema ma perfettamente in ruolo della robusta Effie, per voce e fisico. Un film profondamente americano, in tutti i suoi pregi e i suoi difetti.

Da The Commitments (id., Alan Parker, 1991) al nostrano Volevamo essere gli U2 (Andrea Barzini, 1992), dal falso documentario This is Spinal Tap (id., Rob Reiner, 1982) al glam Velvet Goldmine (id., Todd Haynes, 1998), il cinema ha spesso descritto la parabola del successo di gruppi musicali che, raggiunto l’apice hanno poi iniziato una irrefrenabile caduta verso il baratro. Dreamgirls, con il suo equilibrismo fra agiografia e musical, forza le corde del genere. Gioca tutte le carte a disposizione nel mazzo di sceneggiatori e registi, fino a culminare nell’autocelebrazione eccessiva dei titoli di coda che, grazie a sequenze di spleet-screen, associa i bozzetti schizzati da scenografi e costumisti con le loro effettive realizzazioni in chiave filmica. Non è solo l’anima che manca alle Dreamgirls, forse anche un briciolo di modestia, in un tripudio pop che ha in sé la consapevolezza di essere un film destinato a sfondare. Il retrogusto amaro è quello che si assaporava anche in Chicago (id. Rob Marshall, 2002), che guarda caso aveva proprio la firma di Condon alla sceneggiatura.

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