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Nel continente rosso

Nel continente rosso

È stato definito un film troppo violento, pieno di immagini gratuitamente crude, a tratti addirittura splatter. Niente di più lontano dal vero. Perché il film di Edward Zwick è certamente violento, ma solo nella misura in cui porta sullo schermo una realtà tremendamente più cruenta, che è stato necessario rendere persino più edulcorata. La denuncia del film è forte, tanto che il World Diamond Council è dovuto correre ai ripari mettendo in atto una forte campagna pubblicitaria per garantire la provenienza sicura delle pietre messe in commercio. Ciò che colpisce più profondamente è però la tragedia umana che Blood diamond mette in scena con sconvolgente efficacia: non vi sono, se non parzialmente, giudizi morali che decretano buoni e cattivi; non vi sono vincitori, né prospettive che consentano di tirare il classico sospiro di sollievo dopo tanta angoscia.

Lo spettacolo a cui assistiamo è quello di una follia senza logica, in cui la vita appare sospesa nell’incertezza, legata agli sbalzi d’umore di bambini soldato o caporali senza scrupoli; è in questo contesto che l’interpretazione dei protagonisti Leonardo Di Caprio e Djimon Hounsou emerge con prepotente intensità, regalando due tra i migliori personaggi che il cinema abbia offerto negli ultimi anni. Il bel Leonardo è a suo agio nei panni del cinico Danny Archer, dimostrando di essere tagliato anche per ruoli meschini in cui poter far emergere il suo fascino tragico: la collaborazione con Scorsese sembra dunque aver avuto ottimi risultati, rivelando tutto il talento della giovane star; Hounsou, alla sua seconda nomination agli Oscar, offre un’interpretazione carica di intensità umana e di passione, portando sullo schermo una realtà da lui stesso vissuta e perciò profondamente conosciuta. Insieme a loro, la faccia pulita e determinata di Jennifer Connelly, ambasciatrice del nostro sguardo occidentale, in parte ignaro e in parte illuso riguardo alla situazione dell’Africa. Edward Zwick ha il coraggio di portarci nei campi dei rifugiati, mostrandocene l’impotenza e l’inutilità, e sventagliando fantasmi di razzismo da parte degli stessi operatori; per bocca dello stesso Di Caprio le organizzazioni umanitarie vengono denigrate, nel momento in cui vediamo trionfare la follia crudele del RUF (Fronte Rivoluzionario Unito). Sono forse queste le scene più forti, e non tanto per il sangue quanto per lo shock che la loro assurdità provoca nello spettatore, totalmente ignaro di questo genere di massacri. Il forte contrasto suscitato da scenografie naturali mozzafiato non fa che accentuare la percezione dell’Africa come terra violentata e senza futuro, madre della vita ma compagna della morte.

Certamente Blood diamond non potrà cambiare la situazione in cui versa ancora oggi una larga parte del popolo africano, ma la sua forte denuncia costringe a una generale presa di coscienza, sostenuta dal tono asciutto con cui la vicenda ci viene narrata, ed evitando inutili moralismi che appesantirebbero il messaggio rendendolo meno credibile. In definitiva, un’altra prova brillante per Zwick dopo L’ultimo samurai (The Last Samurai, 2003) e un altro passo, forse decisivo, verso l’Oscar per Leonardo Di Caprio.

Curiosità
La battuta migliore pronunciata da Di Caprio mentre parla di diamanti è sostenuta da un efficace, per quanto tragico, utilizzo delle onomatopee: «Ciò che in America è bling bling in Africa molto spesso è bang bang». Niente di più vero.

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