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Breve esegesi degli Amici di Maria

<i>Amici di Maria De Filippi</i>” />L’aspetto dei <em>reality show</em> che apprezzo di più è senza dubbio la facilità con la quale anche i format più mediocri si prestano a letture sociologiche e semiotiche complesse. Possiamo tirare tutte le badilate di letame che ci pare su questo genere televisivo (che spesso merita il biasimo più totale), ma un merito dobbiamo riconoscerglielo: la sua storia e la sua imperitura popolarità <strong>ci dicono tanto di noi, sia come telespettatori che come persone</strong>.<br />
La nuova edizione di <em><A href=Amici di Maria De Filippi (domenica, ore 21.30, Canale 5), che giunge al suo culmine proprio mentre il Grande Fratello apre per l’ennesima volta i battenti, sembra segnare da questo punto di vista un passaggio a suo modo “storico” degno di essere registrato. Lo schema di significato del format, stagione dopo stagione, è infine giunto al suo totale ribaltamento; i giovani artisti, una tempo protagonisti in positivo della trasmissione, sono ormai ridotti a delle semplici “funzioni narrative” in conflitto tra loro; l’aggressività ha avuto il sopravvento. In un certo senso ha vinto il pubblico in sala. Un’entità iraconda, fatta di rossetti accesi, tinture bionde, voci elevate all’ennesima ottava e beceri slogan in grado di ridurre la trasmissione a una serie di attacchi personali intervallati da canzoni e balletti. Uno spettacolo talmente greve da spingere persino Platinette, che di caciara se ne intende, a presentare una mozione d’ordine (caduta nel vuoto) durante la prima puntata del serale: «Da questo momento, vorrei che ci limitassimo a giudicare di volta in volta le performance dei ragazzi»
Nel suo piccolo, un momento che segna un’epoca televisiva. Un momento che non giunge per caso, tappa necessaria di un percorso sociale e di costume che si snoda lungo il terzo millennio.
Ma andiamo con ordine, che la storia della Tv non si può affrontare a spizzichi e bocconi.

Il reality, in Italia, approda nell’autunno del 2000. Sono due le trasmissioni che possono fregiarsi della nuovissima etichetta: da una parte Popstar (dal format americano American Idol) condotto dal bel Daniele “Coma vigile” Bossari, dall’altra il Grande Fratello, affidato alle sapienti mani di Daria Bignardi (sulla quale non farei ironia neanche sotto tortura). Questi show sono i capostipiti di due dei più <i>Popstar</i>” />importanti filoni nei quali si dividerà anche in futuro il reality italico (con l’aggiunta, dal 2003, del genere “Vip”): quello a base di giovani più o meno promettenti che cercano di sfondare in Tv e quello a base di giovani più o meno incapaci che sfondano in Tv.<br />
Lo straordinario successo di entrambi i programmi, rende inevitabile la riproposizione dei due concept di partenza negli anni successivi, con variazioni più o meno significative.</p>
<p><strong>Il genere “persone senza qualità evidenti”</strong>, che si fonda sul raggiungimento del successo in virtù della semplice esposizione alle telecamere, prospera rigoglioso un <em><A href=Grande Fratello dopo l’altro, mantenendo ascolti vertiginosi e limitando la propria evoluzione a un costante scadimento dei personaggi, che sistematicamente scivolano dal mediocre al patetico. Non è difficile tracciare un continuum che parte dall’originale Pietro Taricone – ragazzo in fin dei conti abbastanza brillante – per arrivare all’imbarazzante Fabiano della scorsa edizione, passando per Floriana, Mascia e Fedro. Il punto apicale di questa evoluzione si registra con La pupa e il secchione. Se ci avete fatto caso, il fatto che le ragazze fossero belle e i ragazzi eruditi, veniva sottolineato molto raramente: l’importante era esibire il fatto che le ragazze fossero ignoranti e i ragazzi brutti.

Il genere “talenti emergenti”, nel frattempo, si muove nella direzione opposta, cercando protagonisti sempre più capaci e competenti. A Popstar succedono quindi Operazione Trionfo (2002), Superstar tour (2003) e Campioni (2004). Programmi dall’audience altalenante, accomunati tuttavia dal livello qualitativo dei partecipanti piuttosto alto: i cantanti sono sempre più intonati, i calciatori vincono il campionato.
Amici di Maria De Filippi, in questo senso, è emblematico. Complice anche l’arrivo di veri e propri cyborg dall’Europa dell’est (per fare un solo nome, l’eccellente Anbeta dell’edizione 2002/2003), il programma nato nel 2001 diviene in breve tempo una rispettabile fucina di belle speranze (artisti magari no, ma senza dubbio onestissimi professionisti del canto e della danza). La difficoltà delle sfide portate in scena cresce, <i>Campioni</i>” />la competizione sale di livello e lo spettacolo cambia progressivamente faccia: se prima uno dei momenti cruciali era quello in cui il concorrente si cimentava in una specialità non sua, ora ai ballerini viene chiesto quasi esclusivamente di ballare e ai cantanti di cantare, puntando il più possibile al virtuosismo.<br />
Apparentemente tutto bene. Ma come spesso accade alla Tv italiana, la deriva è in agguato. </p>
<p>I “reality dell’incapacità”, infatti, si impongono gradualmente come il paradigma imperante. Giornalisti e sociologi non hanno dubbi: <strong>il grande pubblico cerca l’immedesimazione e, se possibile, vuole modelli bassi che non lo facciano sentire inadeguato</strong>. Felicemente rimbambiti da anni di tronismo e velinismo, e al tempo stesso castrati nelle proprie ambizioni dalla recessione economica che attanaglia il Paese, gli spettatori cercano nel sogno televisivo sollievo e consolazione. I quindici minuti di celebrità – sempre più a buon mercato – divengono l’antidoto alle sconfitte della vita e al mutuo trentennale.  Per <em><A href=Amici, l’aria potrebbe farsi pesante: la bravura in quanto tale non tira più.
Gli autori del programma, però, sono scaltri e individuano per tempo la mutazione che salverà la specie. La telecamera si gira seguendo il vento, per mostrarci il pubblico berciante, nuovo signore e padrone dello show.

Nel giro di un paio d’anni, personaggi come Fabiana Presterà (alias “la ventenne velenosa”) e Rita Speranza (“professoressa inacidita”) raggiungono la popolarità.
Il trucco è semplice: basta buttarla sempre e comunque in rissa. Al pubblico piace.
Non si tratta più di premiare un giovane promettente. Girardianamente parlando, l’obiettivo finale è il sacrificio; siamo nella zona d’ombra del Grande Fratello. Là si esalta l’inettitudine, qui si castiga il talento.
Un meccanismo che in quest’ultima edizione funziona particolarmente bene, in virtù del fatto che anche i concorrenti e gli insegnanti si sono completamente allineati e stanno al gioco, seguendo alla lettera un regolamento pensato appositamente per fomentare la polemica e il litigio. Nell’elenco delle armi da sfoderare in trasmissione, alle ugole frementi e ai passi acrobatici si sono rapidamente aggiunte le frecciate e gli intrighi. [img4]La posta in palio, d’altra parte, è la “sacra” visibilità, un concetto che nell’immaginario contemporaneo ha sorpassato a destra perfino la sete di denaro. Apparire non è soltanto meglio che essere; è anche meglio che avere.

Come dicevo all’inizio, il bello dei reality show è proprio questo: ci mostrano la nostra Tv, ci parlano della nostra società. Anche se la Tv è bruttina, anche se la società è quella che già conosciamo. Quella che rifugge la meritocrazia in quanto attentato allo status quo, quella che predica dialogo ma ama l’odore del sangue, quella che dei propri eroi ama gli scivoloni e non le imprese.
Quella che qualcuno che ci conosce bene ha costruito per noi.

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