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Il sogno americano nelle mani di un italiano

Il sogno americano nelle mani di un italiano

Maturità a stelle e strisce di Letizia della Luna ******

Il giusto equilibrio. La maturità di un regista e la buona riuscita di un film si rivelano spesso nell’armonia e nella giusta proporzione fra i vari elementi. Specialmente se si tratta di una pellicola che non ha certo le pretese del film d’autore, dell’opera nuova che fa gridare al capolavoro, ma si propone placidamente come prodotto cinematografico dal largo uso e consumo.

Perfetto esempio è La ricerca della felicità, melò tipicamente marchiato Usa ma diretto dal nostrano Gabriele Muccino. Basato su una storia vera, il film è l’emblema, la messa in scena autoreferenziale del tanto mitizzato sogno americano: anche un uomo senza mezzi che si ritrova a fare il barbone in mezzo di strada con figlioletto a carico di cinque anni, grazie alla straordinaria forza di volontà e alle possibilità che comunque l’America dà sempre a chiunque può farcela, risollevarsi dalle ceneri e diventare addirittura milionario. La trama è interessante, proprio perché ispirata a una storia vera. Ma di favole contemporanee è pieno il mondo. Anche di quelle dalla risoluzione ben più complicata di questa. E così nelle due ore di pellicola si viene colti di sovente da un profondo sentimento di noia, forse proprio perché la storia è nota e la sceneggiatura in diversi casi balbetta. Nonostante questo, analizzando il film non lo si può bacchettare fino in fondo, proprio in virtù del fatto che Muccino, dimostrando un’innegabile maturità, sembra aver creato un ingranaggio perfetto in cui tutti gli elementi vengono bene a intersecarsi fra loro senza mai incepparsi, senza mai far sì che uno ne blocchi un altro o lo soverchi. E così c’è un buon livello di ritmo, aiutato da qualche stratagemma, come il liet motiv delle ripetute corse, c’è una fotografia presente ma non invasiva, una San Francisco ritratta anche negli anfratti più nascosti e anche e soprattutto c’è un attore grandissimo e un piccolo grande attore: Will Smith padre con il figlio Jaden Smith.

Una recitazione perfetta, mai sopra le righe e mai subdolamente votata all’impietosimento, un volto che si contrae e si distende, una persona/attore che sta credendo realmente in quello che fa. E Will Smith diventa il suo personaggio. La bravura è forse nel dna e anche il figlio, nonostante i pregiudizi da figlio d’arte, appare sempre adeguato e terribilmente simpatico, anche se a momenti inverosimilmente maturo. Un film neutro, ma che nella sua neutralità trova la ragion d’essere.

L’esasperazione dell’infelicità di Claudio Garioni ****

C’era una volta il Gabriele Muccino che mi piaceva. Quello di Ecco fatto. Con Come te nessuno mai e L’ultimo bacio mi sono schierato nel motto “Troppo facile criticare Muccino. Il coraggio sta nel difenderlo” e così lo difendevo. Poi è arrivato Ricordati di me. Solito successo di pubblico (un bene per il cinema italiano che fatica davvero a portare spettatori in sala), ma deludente, pieno di stereotipi e incapace di premere a fondo sull’acceleratore del dramma.
Ecco che Muccino goes to Hollywood. Si affida interamente a Will Smith e figlio (reale) e produce uno dei film più lenti, noiosi e soprattutto tristi che abbia mai visto. Altro che la felicità del titolo! Immaginate un uomo che perde contemporaneamente lavoro, moglie, auto e casa. Non basta: viene continuamente bersagliato dalla sfiga come il più tragico dei Fantozzi. L’effetto di tale sequenza di eventi in un film comico è immaginabile, viceversa in un film drammatico provoca solo irritazione. Insomma un vero e proprio American nightmare che fa pensare ai momenti più drammatici di Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948).

Oltretutto c’è da sottolineare il merito che ha Muccino nel peggiorare anche quanto di bello ha a disposizione:
- Ha Thandie Newton nel cast? Le ha tolto qualunque attrattiva estetica e l’ha fatta recitare nell’unico modo in cui recitano le donne nei suoi film: urlando, piangendo ed esasperando i toni (tralascio commenti sul pessimo doppiaggio).
- Ha San Francisco come set? Una delle città più particolari e affascinanti del mondo. Beh, viene trasformata in un ambiente qualsiasi. Facci vedere questo benedetto Golden Gate! O Lombard Street! O il porto! Salvati con una ripresa degna di un regista!
- Nei suoi film precedenti sapeva raccontare con brio e appoggiarsi alla musica degli archi perfetta per l’incedere delle sue storie? Cambia stile: regia piatta. E musica piatta.

E vogliamo infine parlare del valore trasmesso dal film? Dopo aver fatto vedere – unico pregio – la situazione terribile di chi perde tutto in una società concorrenziale come quella made in Usa, ecco che il messaggio comunicato sembra essere esclusivamente che la felicità si trova nei soldi. Come un incubo ripenso a quell’orribile scena in cui Will Smith arriva per la prima volta davanti al palazzo della società di broker e si accorge che tutti quelli che camminano attorno a lui sono sereni e sorridenti.
Basta, vi prego, fatemi fermare qui. È davvero troppo. Che film infelice.

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