Stati d’animo diversi
Nella locandina del film, Qiang è l’unico bambino in carne e ossa, davanti a un grande disegno che ritrae tutta una serie di altri bambini, tutti uguali, con la stessa espressione, dallo stesso abito, il cui colore tanto ricorda le divise dei soldati della dittatura di Mao. I compagni di scuola di Qiang sono come quelle testoline anonime, sono come lui dovrebbe essere secondo le istituzioni, i genitori, le maestre. Il premio al conformismo è un fiorellino rosso delicato di carta velina, così piccolo da potere stare nella mano di un bambino e tuttavia tanto grande perché simbolo del valore che sta dietro ad un’azione corretta secondo il vademecum del bravo bambino cinese.
Qiang è un discoletto di quattro anni che volendo vivere il quotidiano a modo suo è costretto a pagare pegno con la punizione, l’isolamento e la salvezza nel sogno. Durante i suoi viaggi onirici riesce a fare ciò che vuole: a giocare con la sua ombra o a camminare nudo facendo pipì sulla neve e, soprattutto, a farsi accettare con un sorriso dall’acida maestra stile Signorina Rottenmeier, con le sue scarpette a mezzo tacco, il suo intercedere indispettito e il suo immancabile – e onnipresente – fischietto sempre pronto a risuonare nelle orecchie delle giovani marionette, anche solo per dare loro il ritmo del passo soldatesco.
E’ una pellicola che ricade nella ripetitività: la narrazione sembra non avere uno sviluppo perché continua a ribadire lo stesso concetto, malgrado le vicende siano molteplici e tutte avanzino più o meno velocemente dietro a quei piccoli angeli e diavoli. Il problema è che sia questi ultimi, i bambini, che Zhang Yuan non fanno altro che confermare quello che è chiaro fin dal primo istante e cioè che Qiang è e sarà sempre l’outsider. Qiang solo all’inizio della vicenda partecipa alla collettività e con la stessa sembra volere instaurare un rapporto: lo vediamo in un’immagine corale, tra i tanti, seduto che ascolta le istruzioni della maestra; ma, ben presto lo vediamo sfuggire dal quadro di insieme per vivere un eterno assolo. Dunque, non compare più tra i canti dei compagni, tra i loro giochi; al massimo lo scorgiamo insieme a una o due bambine, o, addirittura, in testa ad un’intera guarnigione di fanciulli che lo abbandona al termine della prima battaglia. Qiang è comunque sempre solo e ha la stoffa del leader, anche quando, suo malgrado, è costretto ad affrontare in lacrime gli spettri della sua fantasia.
A Zhang Yuan il grande merito di avere saputo dipingere perfettamente gli uni e gli altri protagonisti; i loro stati d’animo, dimostrando di conoscere profondamente il loro universo. Zhang riesce infatti a trattare in modo estremamente naturale le diverse sfaccettature caratteriali dei bambini: la volubilità, nella facilità che hanno di passare dal riso al pianto nel giro di pochi istanti; la loro disponibilità nel loro essere pronti a diventare amici del cuore e un istante dopo acerrimi nemici per motivi oscuri, e la loro mancanza di malizia (impresa assai difficile da rappresentare di fronte ad una cinepresa!) nei giochi più scomodi.
Zhang parla di loro e con loro utilizzando poche parole, bensì, immagini calde e ambienti avvolgenti, pur nel loro essere essenziali ed estremamente spartani (da notare il gabinetto a cielo aperto composto da due canaline sulle quali i bambini sono costretti a inchinarsi in fila per espletare, secondo gli ordini della maestra, i loro bisogni). Ciò che scalda la pellicola sono le risate cristalline, il goffo incespicare dei fanciulli e i loro sogni strampalati e tutto diventa più leggero, perché riviviamo noi stessi la nostra infanzia, e triste, perché ci accorgiamo di non esserne più i protagonisti.
Curiosità
Vincitore del premio Miglior film della sezione Panorama (Premi C.I.C.A.E.) al Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 2006.
A cura di Alessandra Cavazzi
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