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C’è del marcio in Danimarca

C’è del marcio in Danimarca

William Shakespeare lo scrisse nel 1602 fra le righe della sua tragedia più celebre. La Danimarca di Amleto puzzava di marcio già allora, non certo a causa del mare. La storia sembra non avere cambiato aria sui lidi della sirenetta di Copenaghen. Il cinema danese offre al mondo uno specchio allarmante della propria cultura, proponendo film altamente drammatici, spesso dai contenuti forti, scabrosi, talvolta scandaloso. Che Lars von Trier fosse il trascinatore di questa schiera danese di registi disturbati e disturbanti.

Il fondatore del Dogma 95 torna sui suoi passi, dopo aver temporaneamente abbandonato il suo decalogo, e costruisce un film in pieno stile dogma. Ambientazioni reali, luce naturale, recitazione sotto le righe, nessuna musica extradiegetica sono gli elementi estetici che maggiormente balzano all’occhio dello spettatore. Meno evidenti sono invece i cambiamenti apportati dal regista al suo stile personale. La sterzata effettuata da von Trier verso il genere della commedia risulta evidente fin dalla locandina, ma non si tratta di una vera novità; Il grande capo è sì costruito come una classica commedia degli equivoci, ma l’evoluzione drammatico-narrativa evidenzia in modo sempre crescente la tensione creata dalle dinamiche dei personaggi, trasformando il microcosmo aziendale in puro grottesco, tanto da riportare alla mente i film caustici della commedia all’italiana come La vita agra di Carlo Lizzani. Il grottesco diventa quindi la cifra stilistica principale, come già lo era per Gli idioti. A un secondo livello, von Trier adotta una singola tecnica per la costruzione delle inquadrature e del montaggio. Le scene riprese negli angusti spazi dell’ufficio della società adottano tagli anomali, sghembi, apparentemente errati (i personaggi risultano spesso tagliati e molte inquadrature sono vuote o sovrabbondanti) ma motivata dal fatto che le scelte di montaggio sono randomiche poiché effettuate da un software. Idea azzardata ma efficace per movimentare gli ambienti claustrofobici e di poco interesse scenografico. Un’ulteriore idea di von Trier, passata relativamente sotto silenzio in Italia, è la scelta intenzionale di infarcire il film di evidenti errori di continuità. Un concorso on line (www.lookey.org – ma solo per la Danimarca) ha offerto una ricompensa di 4.000 euro allo spettatore che per primo ha segnalato tutti gli errori contenuti nella pellicola: se questo non è direct-marketing innovativo…

Von Trier spesso stupisce più per le sue provocazioni che per il valore intrinseco dei suoi film: con Il grande capo dimostra invece di aver costruito un’ottima sceneggiatura che, pur rischiando il patetico, offre degli apici esilaranti e dei momenti di grande cinema. Al centro della trama ordita dal vero presidente, nonché da von Trier stesso, è la figura di Kristoffer (Jens Albinus) attore senza parte e seguace di Gambini, genio incompreso del teatro italiano. Geniale il monologo che lo vede protagonista, ormai smascherato dal ruolo di grande capo, che nell’apoteosi dell’impersonificazione stanislavskiana deve portare a termine la trattativa di vendita della società come l’avrebbe fatto il suo personaggio, a tutti i costi.

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