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cultura dell'immagine e della parola

We don’t need no education

We don’t need no education

Allo spettatore che vuole sfuggire al film d’animazione natalizio con morale, non rimane ormai che un’unica speranza: che alcuni bambini, sparsi in vari punti del globo, scrivano a Babbo Natale chiedendo di non ricevere i suddetti film il giorno di Natale. E che il paffuto vecchietto o gli amici folletti agiscano di conseguenza.

Se le case di produzione di lungometraggi in 3D non vogliono proprio rinunciare alla morale, ci regalino almeno lo sforzo di variare le storie raccontate e i relativi principi pedagogici. A settembre è arrivata la Pixar con Cars (id., John Lasseter, Joe Ranft, 2006), a ottobre la Dreamworks con La gang del bosco (Over the edge, Tim Johnson, Karey Kirkpatrick, 2006), ora nuovamente la Dreamworks in coproduzione con la Aardman (tu quoque!) per mettere in scena un protagonista egoista e solo che, dopo svariate peripezie, apprende l’importanza del gruppo, della famiglia e della solidarietà scambiata reciprocamente con le persone vicine. Una vera e propria teoria di morali sulla famiglia che mette in profonda crisi chi scrive, ormai a corto di argomentazioni su film così ripetitivi, e che comincia così a nutrire seri dubbi sulla propria fantasia oltre che su quella degli sceneggiatori. Il lettore perdoni lo sfogo, siamo ancora in odore di festività natalizia.
Qualche sprazzo di British humour compare sporadicamente, quasi a ricordare che, oltre all’animazione, alla Aardman hanno curato anche la sceneggiatura. Un paio di battute azzeccate («L’Inghilterra sta vincendo la finale dei mondiali. Tutto è possibile») e le irresistibili lumachine rosse permettono allo spettatore di tirare il fiato fra una banalità e l’altra, per farlo sprofondare subito dopo nella nostalgia dei fendenti satirici che Peter Lord & Co. avevano saputo menare fra un maglione di Wallace e le dentature ostentate di Galline in fuga (Chicken Run, Peter Lord e Nick Park, 2000).

Consolazione – o forse ulteriore motivo di disperazione? – constatare che neanche il 3D per famiglie appiattisce lo stile Aardman, coraggiosamente non antropomorfo, in cui i personaggi non ricalcano necessariamente le sembianze degli attori che presteranno loro la voce (eccezione concessa ai capelli rossi di Rita – Kate Winslet). Niente pelo soffice e occhioni dolci, Aardman non dimentica di saper fare animazione con la plastilina e tratta i suoi personaggi di conseguenza, con occhi e bocche che si muovono in maniera stilizzata e caricaturale. Le tecnologie più avanzate non sono necessariamente sinonimo di qualità artistica e là dove si manipolano antichi pupazzi di gomma non ci si dimentica di questo principio.

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