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cultura dell'immagine e della parola

Diabolicamente glamour

Lauren Weisberger sforna best seller. Dopo Al diavolo piace dolce (2005) si impone nuovamente sul mercato con Il diavolo veste Prada in cui le parole d’ordine sono moda, cult, glamour e il messaggio di fondo è un richiamo ai valori dell’amicizia, dell’amore e della famiglia. Andy è una neolaureata inesperta che si trova alle prese con Miranda, regina della moda e tirannica direttrice della rivista più all’avanguardia del settore. Dopo un inizio burrascoso, Andy riesce a integrarsi con il nuovo ambiente e diventa l’assistente perfetta. A farne le spese saranno i suoi amici e la sua vita privata.

Il regista americano David Frankel si lascia tentare dallo sfarzo, dai vestiti magnifici, dalle scarpe (rigorosamente con vertiginosi tacchi a spillo, la gioia dei feticisti), dalle feste, da un mondo che sembra potere tutto, capace di giocare con milioni di dollari come fossero pochi spiccioli. E per la parte del diavolo sceglie oculatamente Merly Streep. Ottima soluzione, visto che è esclusivamente la bravura dell’attrice a dare significato alle due ore di visione.

Sebbene il lavoro della Weisberger non sia esattamente una ventata di freschezza nel già vasto panorama dei romanzi di formazione, il libro, nel suo complesso, risulta piacevole. La scelta inusuale dell’ambientazione stuzzica la fantasia e soprattutto l’autrice è brava a non rendere semplici macchiette i suoi personaggi. Lo stile è rapido e accattivante, soprattutto grazie all’utilizzo della prima persona al tempo presente. Il famoso presente storico tanto caro ai professori di latino. E avevano visto giusto i romani, perché è uno stile capace di coinvolgere direttamente il lettore nello svolgimento di un’azione di cui nessuno sembra conoscere l’esito, nemmeno il narratore.

Frankel, invece, si lascia trascinare dagli eccessi, trasforma i personaggi nelle caricature di loro stessi e produce un film brillante per quanto riguarda la confezione, ma totalmente privo di contenuto. L’unica a meritarsi una nota di merito in questo piatto panorama è Merly Streep (Miranda, il diavolo, appunto) la sola dotata di anima e in grado di colpire il pubblico e di risplendere nonostante le luci abbaglianti dei jet set. Sia nella prima scena, quando avanza impetuosa con passo aggressivo stile Crudelia De Mon, sia quando appare con gli occhi rossi e senza trucco, in tutta la sua debolezza. Il resto del cast, purtroppo, si smarrisce tra una passerella e un abito firmato o viene annientato dall’esagerazione e dal ridicolo.

Forse è proprio per adeguarsi al mondo della moda che Frenkel punta tutto sull’effetto visivo: [img4]carrellate di vestiti e di scarpe, panoramiche mozzafiato di New York e Parigi, cura dei dettagli, degli ambienti, degli spazi. Ma per quanto la riuscita di questo aspetto sia innegabile, il film pecca della stessa evanescenza di cui spesso viene accusata la moda: una volta aperta la meravigliosa scatola, splendida e infiocchettata, dentro vi si trova ben poco. Musiche piacevoli ma scontate, trama rimodellata a rischio diabete e la rassicurante certezza che tutto andrà a finire bene e che nemmeno i cattivi sono poi così cattivi. Le poche buone idee che sono state inserite ex novo (come la lezione di moda che Miranda impartisce ad Andy) non vengono sviluppate e si perdono come palloncini nel cielo. Il risultato di due ore di pellicola è, insomma, una gran gioia per gli occhi, un po’ meno per la mente.

Il diavolo veste Prada, romanzo di Lauren Weisberger, 2004
Il diavolo veste Prada, regia di David Frankel, 2006

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