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cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Otar Iosseliani (terza parte)

Gli animali sono molto presenti in questo film. Quale è il loro status? Forse hanno a che fare con i riferimenti alle favole di Esopo…

Rispecchiano le ambizioni dei personaggi. Il nostro futuro ex-ministro non possiede animali. Fa visita ad una vaccheria ma non possiede animali diversamente dal suo successore il quale, sin dall’inizio, possiede un ghepardo. Il ghepardo è l’animale tradizionalmente presente alla corte dei re e dei principi. Dà lustro ai grandi, diciamo che è un simbolo del potere. Tuttavia nel mio film, viene subito messo in gabbia e quindi questo ci fa capire che il potere può essere facilmente tenuto sotto controllo.

E quando un asinello dà un calcio nel sedere di un asino più grande…

Gli uomini si occupano dei propri affari davanti a tutti. Anche gli animali hanno i loro conti da regolare e una vita loro. E poi c’è la presenza di quell’uccello che passa dall’uno all’altro, come se fosse una specie di eredità, un simbolo. Vincent lascia l’ufficio senza portare con se l’uccello, mentre il suo successore se ne appropria senza vergogna, così come i suoi collaboratori tentano di arraffare tutto quello che possono: i posacenere, le tabacchiere… L’idea di appropriarsi di qualche cosa che non ci appartiene dà ritmo al film.

Ritroviamo il gioco della circolazione presente in tutti i suoi film. Gli oggetti esistono per circolare, non per essere di proprietà di qualcuno…

A parte la statua di Venere, che circola da un appartamento all’altro ma che resta sempre nelle mani della stessa signora. Quella statua rappresenta il suo gusto, il suo universo…

… che lei trasforma in presa in giro…

Esatto. Se lei va da un rigattiere o da un antiquario, troverà degli oggetti che tanto tempo fa sono appartenuti a qualcuno. Io invece, cerco di non possedere alcun oggetto. Hanno tutti una loro biografia, riflettono una vita vissuta.

Lei dice di non fidarsi delle parole. In effetti, la sua regia rivela un gusto pronunciato per la comicità legata ai gesti. Basti pensare a Pierre Etaix, nella scena di apertura…

E’ un’apertura simile a quella di un’opera, per far vedere alla gente che non bisogna dimenticare che tutto finisce prima o poi. E questa è un po’ la chiave del film. Una volta finito il film, lo spettatore può ripensare a questa scena, a quelle persone anziane che trattano sul prezzo della bara come se fossero dal droghiere. Anche nell’aldilà, desiderano possedere qualche cosa!

Quando i senzatetto vengono sfrattati dall’appartamento, lui li raggiunge sotto il ponte, sulle rive della Senna. In fin dei conti, appartengono allo stesso mondo?

Esatto. In quel momento le differenze tra di loro non contano più, sono tutti comuni mortali e non sono arrabbiati gli uni con gli altri. Tutto è calmo.

Il film è ambientato a Parigi ma lei resta sempre ad altezza d’uomo e non lascia spazio ai monumenti o ai paesaggi…

Parigi o un’altra grande città sarebbe la stessa cosa. Avrei potuto ambientare il film a Roma ma non a Berlino, che è diventata un incubo, una bomboniera per turisti. Parigi dà l’idea di un’architettura neutra ed io ho cercato di scegliere dei quartieri che non siano troppo pittoreschi, in cui la vita è ancora possibile. Con delle stradine, i bistrot…

Rispetto ai bistrot, nel suo film siamo lontani mille miglia dal tipico cliché del “café parisien”…

E’ vero; i muri sono a disposizione di tutti e ognuno di noi può dipingerci sopra ciò che vuole. E’ la libertà di fare quello che si vuole all’interno di quello spazio. Ma dopo viene venduto, e i muri vengono ridipinti di bianco….

Ho l’impressione che in Giardini in autunno, come nei suoi film precedenti, i personaggi più liberi siano i musicisti…

Per dare al personaggio di Vincent la possibilità di abbandonare un universo e di ritrovarlo, bisognava inventare questo universo. E allora, ho immaginato che fosse un po’ musicista, e neanche troppo malvagio! La musica è piacere puro e Vincent riconosce la sua anima gemella in una musicista che quando era ministro non avrebbe neanche guardato. Soltanto quando torna ad essere un comune mortale, si accorge di lei. A quel punto, la sua vita non è più così complicata!

Se io le dico che il suo film è un’ode alla libertà, si riconosce in questa definizione?

Certamente. Ma aggiungo che l’idea della libertà è sempre stata presente in molti dei miei film.


Lei ama molto i lunghi piani sequenza. Questa predilezione riflette la sua filosofia di vita, il suo amore per i vagabondaggi?

Prima di iniziare le riprese, preparo il film disegnando ogni scena. Lo story-board permette di preparare dei lunghi piani sequenza per poterli poi girare in una volta sola, per far scorrere questo fiume senza alcuna interruzione. Questo permette di trovare il ritmo giusto, come nella scena in cui Vincent va in pattini: si scontra con una vecchietta, una bicicletta, un’automobile… Con sullo sfondo, dei venditori italiani. Quando si fa un film, è necessario creare un ritmo e i disegni sono un po’ come una partitura musicale. Quando si gira poi, non resta altro da fare che suonarla scegliendo il tempo giusto…

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