hideout

cultura dell'immagine e della parola

Intervista a Otar Iosseliani (seconda parte)

Pensa che questa sua capacità di staccarsi da un’ambientazione cronologica ben precisa o da una determinata attualità derivi dal fatto che lei si trovi tra la Georgia e la Francia, tra due paesi e tra due culture?

Troviamo sempre il riflesso di ciò che conosciamo anche in altre culture o in altri paesi. Ci sono gli stessi movimenti dell’anima e dello spirito un po’ ovunque e questo dà la possibilità di fare dei film che, pur non essendo concreti, sono comprensibili in diversi angoli del mondo. La cosa importante è che lo spettatore al quale mi rivolgo capisca di cosa si tratta e che riconosca il fenomeno di cui parlo nel film. Dopodiché, sarà lui a dargli una dimensione concreta, aggiungendo del suo, del proprio vissuto. Io, per esempio, sono stato testimone di un’enorme catastrofe: il bolscevismo. Ci sono state tante altre catastrofi, altre cadute di regimi, altri fenomeni simili ma ognuno può nutrire la favola con il proprio vissuto: Stalin, Hitler, Saddam… Ognuno ha il suo lupo.

Quale è il segreto dei suoi film, che riescono sempre a trasmettere un messaggio universale?

In ogni opera entrano in gioco due forze: una forza che definirei gonfiata, che conduce ad errori irreparabili e una forza modesta, semplice, senza pretese: la forza di coloro che capiscono sin dall’inizio che è meglio non fare niente piuttosto che fare qualcosa che non vale niente! Adoro questo tipo di formule, efficaci, come i proverbi. L’importanza di quanto ho detto è emersa quando ho fatto vedere il mio film ai Russi: non parlavano una parola di francese ma hanno capito tutto, forse addirittura meglio di quelli che invece conoscevano la lingua. Sicuramente perché non hanno attribuito alle frasi un contenuto concreto ma hanno capito il significato profondo di tutto attingendo alla regia, alla messa in scena. Non amo i film troppo infarciti di dialoghi, quelli che permettono allo spettatore di chiudere gli occhi visto che con le sole orecchie può continuare a seguire e a capire tutto quello che succede. Per contro, ci tengo a rendere la narrazione comprensibile senza che si debba necessariamente conoscere la lingua nella quale gli attori recitano. Un’altra regola che seguo sempre: non utilizzare mai dei volti noti. Gli attori famosi entrano in ogni film portandosi dietro tutta la loro storia, la loro biografia che generalmente è conosciuta da tutti; parlo dei ricordi, delle immagini che lo spettatore ha conservato nella sua testa, le associazioni mentali.

Tuttavia, tra gli attori abbiamo notato il nome di Michel Piccoli…

Sì, ma totalmente trasformato in una vecchia signora. Il mio amico Pierre-André Boutang, dopo aver visto il film mi ha detto: «Mi è sembrato di aver visto Piccoli da qualche parte, ma dove di preciso?» Questa trasformazione è tipica del mestiere di attore e quindi non sono affatto contrario a lavorare con gli attori ma devo confessare che la loro celebrità mi infastidisce, la trovo pesante.

Nel caso specifico di Piccoli, quale era il suo principale desiderio: lavorare con lui o capovolgere la personalità di un grande attore?

Purtroppo Narda Blanchet, la donna che ha interpretato tutte le vecchiette dei miei film, non ce la faceva a venire dal paesino in cui vive per interpretare questo film. Per quanto riguarda Piccoli, avevo pensato di scritturarlo per un piccolo ruolo, che poi è stato interpretato da Jean Douchet. Ne abbiamo parlato e lui ha menzionato, giustamente Narda, dicendomi quanto la trovasse bella. Allora ho avuto l’idea di proporgli il suo ruolo e lui ha accettato subito con grande piacere. Gli abbiamo messo una parrucca e un paio di occhiali e si è trasformato in una vecchia signora!

E Séverin Blanchet, che interpreta il ruolo principale?

E’ un mio amico, totalmente sconosciuto al pubblico, il che aiuta.


E lei? Ha interpretato il film perché ama recitare?

No, ma solo perché anche la mia faccia è totalmente sconosciuta al pubblico e a volte mi capita che quando non riesco a trovare l’attore giusto per un ruolo, lo interpreto io stesso. In questo caso avevo bisogno di qualcuno che fosse in grado di suonare bene il pianoforte, che sapesse disegnare e che fosse un po’ bislacco… A un certo punto, avevo pensato a Rufus ma lui è troppo famoso. Io non mi diverto affatto a recitare, anzi direi che trovo piuttosto imbarazzante essere davanti e dietro la macchina da presa contemporaneamente. Ci vuole tanto tempo e tanta fatica ed è un lavoro estremamente difficile.

• Vai alla prima parte dell’intervista
• Vai alla terza parte dell’intervista

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»