hideout

cultura dell'immagine e della parola

Too Young to die

Too Young to die

On the road again
Deja-vù è una sensazione, e il titolo di uno dei dischi fondamentali del cantautorato rock statunitense a cavallo fra gli anni sessanta e settanta: a Crosby, Stills e Nash si era aggiunto, per quel loro nuovo lavoro in studio, un giovanissimo artista chiamato Neil Young. Da quel momento, per il futuro cantore dei losers e degli spazi sconfinati, la strada della gloria si aprì portandolo a essere considerato uno dei monumenti del songwriting con Bob Dylan, Johnny Cash, Tim Buckley e Cat Stevens, solo per citarne alcuni. La gloria di Neil, però, al contrario di quella promessa dal dorato mondo del successo, è furiosa, venata di un senso di inevitabile rassegnazione alla sconfitta, pur se dopo una battaglia combattuta fino alla fine. E come Clint Eastwood, e i grandi, vecchi combattenti del cinema, a noi profani Neil appariva quasi come invincibile, più un simbolo che un uomo, portabandiera delle miserie che da sempre ha cantato, difeso, portato più dei finti valori come un simbolo dell’essere umani: la notizia dell’operazione che potrebbe costargli la vita per sconfiggere un aneurisma al cervello lascia dunque senza parole chi ben conosce il cantautore, a partire dalla stessa band, con lui a registrare il disco Prairie Wind fino a pochi giorni prima dell’intervento. Ma Neil accetta il destino, così come la sua nuova battaglia. Evidentemente, qualcuno ha pensato che qui ci fosse ancora bisogno di lui, armonica, voce e chitarra, ma soprattutto tanto, tantissimo cuore, per raccontare quanto piccoli e fragili sono i sogni degli uomini. E’ una fortuna poterlo ascoltare di nuovo, per la prima volta dopo l’operazione. Demme, con perizia e passione, sembra abbassare la voce di fronte alla musica.
Non un opera per tutti, questo è certo. Ma chi conosce il lavoro di questo enorme talento musicale, o vuole approcciarlo, per chi ama la musica stessa e ha conosciuto la commozione di fronte a pellicole di Robert Altman come Nashville (id, 1975) e Radio America (A prairie home companion, 2006) non potrà non perdersi nelle parole e i suoni indimenticabili di questo cavaliere solitario accompagnato, semplicemente, dalla sua band, dai suoi amici, di nuovo lungo la strada.

In punta di piedi
Jonathan Demme, regista eclettico e ottimo documentarista, torna una volta ancora alla sua antica passione per la musica firmando un lavoro che, certo, a livello creativo non lo impegna e mette alla prova come una pellicola di fiction, ma che sottolinea la grandissima capacità del cineasta di Baldwin di sapersi porre in secondo piano rispetto al vero protagonista dei suoi lavori di non fiction. Era stato così nello splendido The Agronomist (id, 2003), e di nuovo lo si nota in questa sua ultima fatica. Il regista non compare in nessuna inquadratura, e anche nelle brevissime interviste alla band lascia che il montaggio fornisca solo le risposte dei musicisti, senza che le domande tolgano spazio a un opera che appare come un commosso omaggio a un vecchio amico. Ottima la scelta di filmare il concerto integralmente, e di lasciare che Neil Young e i suoi racconti di raccordo fra i pezzi presentati trasmettano al pubblico l’intensa carica emotiva dell’evento e, probabilmente, gli intenti stessi del regista.
Se, e viene quasi naturale dire ovviamente, sulla colonna sonora non si discute, restano qualche riserva sulla fotografia, a tratti troppo satura, e il rimpianto di una mancata intervista allo stesso Young, forse, certo, non consone al suo personaggio, più legato all’immagine di chiusura del film, con il pezzo eseguito alla luce del teatro ormai vuoto. Un plauso, invece, al montaggio, leggero e straordinariamente efficace – considerato che si tratta di un unico concerto filmato da più macchine da presa -, ottima appendice di una regia in cui la ragione riesce a misurare l’intensità dei sentimenti.
Un’altra pellicola, dunque, si aggiunge alla storia dei film-concerto, e se non è certo all’altezza della fama dell’Ultimo Valzer (The Last Waltz, Martin Scorsese, 1978) resta un ottimo documento su un leggendario performer. Bentornato, Neil.

Curiosità
Emmylou Harris, ospite come seconda voce al concerto del Ryman Auditorium, è una nota star della musica country, con all’attivo venticinque pubblicazioni. Heart of gold, la canzone che dà il titolo alla pellicola, tratta dall’album Harvest (1972), è stata, nel corso degli anni, riproposta da decine di band e solisti, tra cui Johnny Cash, gli Stereophonics e Willie Nelson.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»