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La notte del cinema horror

La notte del cinema horror

Se la vergogna potesse improvissamente diventare sinonimo di creatività e la stupidità una nuova forma di intelligenza, ovvero, se potessimo, come per magia, bruciare qualsiasi dizionario e capovolgere il Mondo, allora, e soltanto allora, il lavoro di Alessandro Panbianco diverrebbe degno di essere considerato un film. Scuole di regia mancate, corsi di dizione bigiati, sceneggiatura degna, nel suo terrificante qualunquismo, del più spaventoso film dell’orrore, questi gli elementi fondanti dell’opera e di chi ne ha preso parte.
Inquadrature baldanzose e sfuocate (forse una nuova moda) titubano costantemente nel centrare l’obbiettivo, mentre è difficile spesso capire chi stia parlando e perché. Risultato: riprese tremolanti di angoli di strada (forse metafore bunuellane atte a indicare il nulla in cui vive la gioventù odierna?) occupano costantemente lo schermo.

La notte (vera protagonista della vicenda) non aiuta di certo, anzi, confonde ancor più. Risultato: spesso non si vede cio’ che accade. Conseguenza: non si capisce molto.
Licenza poetica? Assai improbabile data la scarsità del contenuto dell’opera.
Sciocchi serial killer e fatalità in cui neanche il piu’ sfortunato degli uomini potrebbe incappare facilmente tentano di rendere la trama intrigante, complici i classici ritagli di giornale appesi alle pareti che narrano perduti massacri, bambolotti “rubati” dalle ceneri del set di Profondo rosso (Dario Argento, 1975), e una maschera posticcia, parto ibrido nato dall’unione di Venerdi 13 (Friday the 13th, Sean S. Cunningham, 1980) e Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, Jonathan Demme, 1991).
Un calderone degno del miglior sabbah delle streghe che non strega assolutamente nessuno.
Dialoghi talmente dimenticabili da risultare indimenticabili, motivazioni cucite e rattoppate peggio della maschera posticcia (chi sia serial killer, perché uccida e quale oscuro segreto si nasconda tra le parole di quei ritagli di giornale naturalmente rimangono misteri insoluti) tendono la mano ad abborracciate metafore dozzinali: il lupo e cappuccetto rosso disegnati con mano degna dell’accademia delle belle arti da una bambina di soli dieci anni.

Inutile chiedersi perché le protagoniste non uccidano il maniaco quando ne hanno l’opportunità o come faccia il serial killer ad azzeccare sempre l’età delle vittime dato che le sceglie per strada e di notte.
Altrettanto inutile domandarsi come, un film del genere, sia potuto finire nelle sale.
Solo una speranza, forse: parodia dell’horror b-movie, volutamente criticabile, La notte del mio primo amore potrebbe essere considerato un capolavoro.

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