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cultura dell'immagine e della parola

No way out

No way out

Jack e Anne viaggiavano verso nord. Poi accadde qualcosa. Lui scese dall’auto per comperare qualche snack in una stazione di servizio del New Jersey, ma quando uscì la sua macchina non c’era più. E con lei era sparita anche Anne. Questo Jack era certo di ricordarselo. Tornato a casa trova ad aspettarlo una cartina geografica con una linea segnata da New York a San Diego, attraverso Lexington e Boulder, attraverso gli Stati Uniti, da costa a costa. Jack decide di partire.

Fin qui potremmo credere di trovarci di fronte al più classico dei romanzi “sulla strada” in cui un uomo batte tutte le highways d’America alla ricerca della donna amata… ma questo è il Purgatorio Americano di John Haskell e la storia che ci aspetta non è affatto come ce la saremmo immaginata. E non è neppure meglio. Perché questa ricerca non riesce a creare quel senso di attesa per l’ineluttabile che incombe, e che dovrebbe tenerci attaccati alle parole. Mentre Jack cerca ossessivamente, in ogni cosa che ha di fronte, un ricordo dell’amata Anne, si perde scodinzolando dietro ai dubbi sulla sua esistenza e a complicate macchinazioni psicologiche. Jack è alla ricerca di un senso per la sua stessa vita, ma così facendo si e ci trascina per un sentiero di seghe mentali comparate tra il mondo di fuori e quello dentro la sua testa. L’artificiosità pseudo-coscienziale della prosa di Haskell ci distacca dal personaggio, mentre le parole scivolano via lungo tutto il percorso, prive di significato in sé; e se l’autore voleva dimostrarci proprio questo, cioè l’assenza di significato della nostra vita, bastava molto meno, giusto qualche curva, perché la strada che imbocca è solo una, sempre quella, fin dall’inizio.

Neppure lo stravolgente cambio di rotta del finale riesce a rimescolare le carte in tavola, perché tutte le strade aperte si sono rivelate ramoscelli aridi di un cogitare infecondo, e si rimane ingabbiati nell’irresoluto, nella vanità di un essere alla ricerca di se stesso. L’ispirazione dantesca dell’autore viene ingabbiata da una struttura narrativa divisa in sette capitoli corrispondenti ai sette peccati capitali; ognuno diviso in sette paragrafi (bastasse solo questo a recuperare la complessa geometria della Divina Commedia!). La stessa strategia testuale è talmente palesata che il lettore perde il piacere della scoperta, di muoversi nel testo come in un viaggio, e una storia on the road si rivela un’esperienza metafisica e astratta, quasi extra-sensoriale, fuori dal tempo e in uno spazio indefinito, sotto lo stesso grande cielo a stelle e strisce. Ma certo non mancano le pennellate di storicizzazione, quando Haskell getta alla rinfusa nel testo delle scene sradicate come pretesto per fare qualche spicciola considerazione moraleggiante sulla società Occidentale, e in particolare sull’America post 11 settembre. E nemmeno mancano torme di personaggi bizzarri e allucinati: studenti-vate che praticano lo yoga, hippies bucolici, messicani ubriaconi e barboni senza uno scopo nella vita; ma nessuno di questi riesce a lasciare un segno (una possibilità di senso) in Jack.

Insomma, ci troviamo di fronte a un uomo che si sta perdendo, che si sente svanire, un uomo che riacquista le sua esistenza nel momento esatto in cui si rende conto di averla perduta. Sarebbe anche bella l’idea, ma forse ci è arrivato un po’ troppo tardi.

John Haskell, cresciuto in California, ha studiato alla Columbia University di New York e ha fondato l’Huron Theater a Chicago. Autore di un’antologia di racconti intitolata Non sono Jackson Pollock, i suoi lavori sono apparsi su varie riviste.

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