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Lo sguardo di un bambino

Lo sguardo di un bambino

Lo sguardo di un bambino sulla sua famiglia. Uno sguardo doloroso, severo, maturo. Questo il film d’esordio di Kim Rossi Stuart, che con sincerità e onestà intellettuale ha dato vita a un’opera forse a tratti eccessiva nei toni ma sempre fedele a se stessa, rigorosa nelle scelte e nei tempi. Il cinema, da I bambini ci guardano (Vittorio De Sica, 1943) a I quattrocento colpi (Les 400 coups, Francois Truffaut, 1959), ha spesso privilegiato il punto di vista dei bambini per guardare il mondo degli adulti, spesso assurdo e insensato, agli occhi dell’innocenza e dell’ingenuità. E questo ha fatto il regista: mostrarci cosa vede, come vede, come vive un bambino di undici anni in una famiglia squassata, distrutta dalle nevrosi di una madre insoddisfatta, sbatacchiata da un padre presente, ma troppo dolorante e affaticato per riuscire ad ascoltare sempre e comunque i bisogni e i sogni dei figli.

Una fotografia. Niente di più e niente di meno. La regia infatti c’è ma non si vede, la macchina da presa sempre vicinissima ai personaggi è comunque quasi sempre immobile, non dà giudizi o punti di vista, non prende le parti di nessuno. Registra e spia. Per cogliere ogni impercettibile battito di ciglia, ogni minimo dolore nascosto tra le lenzuola, ogni piccola variazione d’umore. Riuscendo, grazie a un ritmo sostenuto e a un montaggio serrato, a non cadere mai nel patetico, nel già visto, nel noioso.

Sicuramente quella della famiglia non è certo una tematica nuova per il cinema italiano. E neppure la storia di disagio raccontata da Rossi Stuart lo è. Si respira però, durante le quasi due ore di pellicola, un senso di partecipazione e di veridicità che fanno uscire il film dalle pieghe del clichè già usato e già rappresentato. Questo nonostante il difetto maggiore del film sembri proprio essere un eccessivo inasprirsi dei toni, un portare a situazioni estreme un quadro famigliare forse già sufficientemente estremo di per sé. Ma probabilmente, viene da pensare, tutto questo sembrare eccessivo e estremo, lo sentiamo tale perché non siamo particolarmente abituati a vederlo nel cinema italiano, spesso addolcito da autocensure, infarcito di un politicamente corretto a tutti i costi. E così il padre che caccia di casa il ragazzino oppure gli bestemmia in faccia viene interpretato come voglia di stupire a tutti i costi. Ma così poi non è. L’urgenza e la sincerità con cui il regista ha costruito la storia si sentono dall’inizio alla fine: ci viene urlato che la famiglia del Mulino Bianco molto probabilmente non esiste; è bello crederci, ma bisogna anche prendere atto che spesso può essere un’utopia irraggiungibile.

Curiosità
Il film sarà presentato nella sezione “Quinzaine des Realisateurs” del prossimo festival di Cannes. Un ottimo traguardo per un attore che ha iniziato ad avere successo con la saga televisiva Fantaghirò (Lamberto Bava, 1991) nella parte di Romualdo. Già prima era approdato al cinema recitando una parte secondaria ne Il nome della rosa (The name of the rose, Jean-Jacques Annaud, 1986).

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