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Peccati nella nebbia

Peccati nella nebbia

L’horror perso nella nebbia di Matteo Treleani

Il peccato maggiore in The fog è quello di non fidarsi fino in fondo dell’opera originale di cui è il remake. Nella strana frenesia di rendere il film fruibile dal pubblico contemporaneo, Rupert Wainwright, pur sotto la produzione dello stesso Carpenter, lo imbottisce di scene splatter e di effetti stucchevoli quanto inutili. Quando sarebbe bastata la nebbia, o l’idea di trasferire la vicenda su un’isola, ancora legata all’Oceano e al suo passato, per incutere del vero terrore.
La stessa trama portante, quella dei marinai morti cent’anni prima nel naufragio del veliero, viene centellinata lungo tutta la pellicola. Carpenter semplicemente la faceva raccontare da un vecchio sulla spiaggia all’inizio del film, senza alcun timore di non riuscire a interessare con quello che sarebbe accaduto dopo.
I protagonisti giovani e fin troppo carini non aiutano a rendere il tutto credibile. Anche il più fantasmagorico degli horror giapponesi ha insegnato come il realismo sia uno degli elementi fondamentali del terrore. Qui di realistico non c’è molto, tanto che a volte sembra di vedere i marinai morti della Maledizione della prima luna (Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl, Gore Verbinski, 2003).

Non importa che il film sia un horror e parli di morti viventi, una logica interna all’opera dev’esserci per riuscire a coinvolgere. Quella che Carpenter aveva creato con così pochi elementi proiettava lo spettatore direttamente in un altro mondo, mentre qui l’effetto di tante scene gore o spettacolari è quello di mantenere una certa distanza. Il che favorisce la noia e un certo senso del grottesco.
A Wainwright non basta che i fantasmi siano lì per vendicarsi, non basta la straordinaria potenza figurativa della nebbia, deve infarcire il tutto di strani elementi esoterici e vicende laterali piuttosto inutili. Non era necessario, per esempio, utilizzare così spesso il simbolo misterioso del veliero (che poi tanto misterioso non è). Se un oggetto antico rinvenuto dal mare s’infiamma per autocombustione, le inferenze sulla sua connessione col veliero si posso fare da soli, senza che la bilancia compaia sulle pareti bruciacchiate.

Di questo remake restano positivamente solo alcuni guizzi metafilmici, che giocano con l’originale. Come la giornalista alla radio e il metereologo che, mentre in Carpenter si parlavano al telefono e organizzavano un appuntamento per vedersi la prima volta, nel remake lo fanno virtualmente grazie a una webcam. O come il prete che diventa un predicatore alcolizzato e il finale che si sposta dalla Chiesa al municipio. Quasi a dire che in venticinque anni in America sono cambiate molte cose.

Il mito della fondazione insanguinata di Francesca Bertazzoni

L’America è forse cambiata negli ultimi venticinque anni. Ma c’è qualcosa di molto profondo che torna a far paura. Martin Scorsese è riuscito a esplicitare questa tenebra in Gangs of New York (id., 2002): nel mito della Frontiera, nel western, nel gangster movie, violenza e eroismo si intrecciano nella costituzione di una comunità forte; la nazione statunitense si fonda sulla violenza dei fratelli contro i fratelli.
The fog nasconde sotto la mediocrità di un remake commerciale una sottotraccia, forse implicita, forse inconsapevole, che attinge a quel cuore oscuro, alla paura per l’orrore della fondazione stessa di una nazione.

Iniziano a emergere dal mare oggetti, una spazzola, un orologio, un carillon: qualcosa di inquietante riaffiora, qualcosa di sepolto ritorna. È il passato che letteralmente si travasa nel presente, è l’orrore dell’omicidio, della violenza sulla quale si è stabilita la fioritura della comunità di Antonio Bay, che torna per riprendersi ciò che le è stato sottratto (e, ancora una volta, i delitti sono stati compiuti per denaro, per ottenere potere). I morti viventi che si avvicinano avvolti nella nebbia non sono mostri di un’altra dimensione, ma uomini uguali a quelli che vivono ora nella baia. Chi minaccia, cioè, è tale e quale a chi viene minacciato, chi commette violenza riceve violenza. E la colpa grave dei padri fondatori si ripercuote sui giovani, sulle generazioni che non sanno degli omicidi, ma sui quali il peccato originale brucia.

Gli esponenti anziani di Antonio Bay, padre Malone, il sindaco Tom Malone, Kathy Williams, storica del villaggio, sono in conflitto con i giovani, Elisabeth e Nick; lei aperta verso l’esterno, alla ricerca di un posto altrove da Antonio Bay, lui interessato più al presente e ai problemi quotidiani della cittadina piuttosto che alla storia della sua istituzione.
Il film auspica l’innocenza delle nuove generazioni, la loro estraneità ai fatti del passato. In realtà, il timore stesso della cultura popolare americana è che i peccati della fondazione tornino, che nella storia americana i delitti siano incancellabili e che, prima o poi, gli oppressi tornino a reclamare il sangue rubato.

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