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Missione tata

Missione tata

Matilda, then she got a serious plan! di Carlo Prevosti

C’era una volta una numerosa famiglia con tanti bambini, tutti veramente, veramente terribili… tanto cattivi da far sembrare Bart Simpson un angioletto. Il problema è trovare per loro un Tata in grado di tenerli in riga. Il registro scelto, per la trasposizione cinematografica di un romanzo per ragazzi scritto oltre quarant’anni fa, dal regista Kirk Jones è quello di una variopinta versione live-action di un fumetto kitch e ipercolorato. Al gioco, apparentemente infantile, ben si presta uno stuolo di attori dallo stile molto british che giocano con l’ipercaratterizzazione dei propri ruoli. Tata Matilda è una irriconoscibile Emma Thompson che ritrova le sue fattezze man mano che i terribili ragazzini imparano le lezioni che il suo compito le impone di fornire. Tata Matilda è una persona che rimane fino a che non è gradita, nel momento in cui i ragazzini la vorranno con loro, allora quello sarà il momento in cui lei dovrà andarsene. Tata Matilda è in questo modo una evidente antropomorfizzazione della condizione infantile, dell’incapacità di accettare le limitazioni che l’infanzia impone alla libertà dell’individuo e che nel momento in cui si ottiene la consapevolezza di ciò che essa comporta, è ormai irrimediabilmente persa. Analogamente le regole del gioco sono portate avanti da una nasuta Angela Lansbury (la signora in giallo) che interpreta un’arcigna zia che però finisce con l’apparire simpatica nella sua iperbolica miopia. Colin Firth è invece un padre amorevole che dopo la morte della mogli si rivela incapace di gestire una casa, sette figli, una parentela ricca e opprimente, un lavoro alle pompe funebri e ben diciassette, dico diciassette, tate fuggite in preda all’esaurimento nervoso per aver
avuto a che fare con le sue bestiole… ehm… i suoi figli. Piccolo ruolo, ma molto divertente, per Imelda Staunton nel ruolo delle cuoca che rimpiange le regole ferree dell’esercito di sua maestà.

Il tono infantile del film, ampiamente prevedibile in ogni suo presunto colpo di scena, è degnamente ripagato dalla vena dark e grottesca offerta dallo humour tipicamente inglese con cui Jones ha deciso di infarcire il film. Il kitch arriva a essere disgustosamente ironico nelle scene in cui entra in gioco la temuta matrigna (la sua casa è degna di quella di pandizenzero della strega di Hansel e Gretel), a livelli che difficilmente ricordiamo in un film che non si aggiri dalle parti di John Waters & co.

Kirk Jones costruisce un film chiassoso, divertente e magico puntando poco sugli effetti speciali quanto sull’effetto cartoonesco di una scenografica carica di colore e di fronzoli a cui contribuiscono attori, musiche e suoni, tecnicamente definiti “mickeymousing”, che collocano il film a metà tra l’animazione e classici (e meno classici) per ragazzi come Mary Poppins (id., Robert Stevenson, 1964 – tata anche lei), Harry Potter (Harry Potter and the Sorcerer’s Stone, Chris Columbus, 2001 – magico anche lui) e Lemony Snicket (Lemony Snicket’s A Series of Unfortunate Events, Brad Silberling, 2004 – assediato da cattivissimi pargoli pure lui!). Meglio se andate al cinema con i vostri cuccioli.

Una magica tata di Stefania Meli

In un’atmosfera fiabesca, che in quanto tale non necessita di rigorosi riferimenti cronologici, ma lascia aperta la porta del tempo e dello spazio all’immaginazione, il regista Kirk Jones sperimenta molto su diversi piani dell’impianto filmico. Gioca con i punti di vista, con il suo sguardo, con quello di noi spettatori e ovviamente con la macchina da presa, muovendosi tra interni dai cromatismi saturi e chiassosi – soprattutto nella prima parte del racconto – ed esterni dalla luce abbagliante. Fotografia, scenografia e costumi divengono così, al contempo, forma e contenuto e non mero decoro o semplice sfondo dell’azione dei personaggi e della misteriosa tata, che provvede al ripristino dell’equilibrio interiore dei protagonisti e di un ordine materiale, laddove dolore, smarrimento e caos avevano preso il sopravvento. Il continuo mescolamento dei registri narrativi – ora le carte sono quelle della commedia inglese, ora vengono sostituite dal fantastico, poi lasciano posto al grottesco a tratti caricato di toni noir, per poi rovesciarsi in classiche gag comiche, come il lancio delle torte sul finale – tratteggia un quadro d’insieme surreale e dall’efficace effetto straniante.

Commutando l’iniziale ostilità nei suoi confronti in affetto e riconoscenza, i piccoli apprendono le “cinque regole” della loro tata, che per ogni obiettivo raggiunto vede mutare il suo aspetto: scompaiono i nei pelosi, le folte sopracciglia unite, il dente sporgente e il nasone schiacciato. Nuova percezione della realtà e nuove sembianze, quindi. Non viene appreso solo un formale codice comportamentale, ma degli insegnamenti molto più importanti: ossia avere il coraggio di reagire alle avversità, saper ascoltare gli altri e soprattutto assumersi la responsabilità delle azioni che si compiono, con le inevitabili conseguenze che queste comportano. Tali cognizioni placano rabbia e mitigano sofferenze, così la fiaba può correre via verso un atteso lieto fine e lasciare allo spettatore di ogni età quel pizzico di nostalgia che costituisce parte del suo potere di fascinazione.

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