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Meglio una vita da leoni

Meglio una vita da leoni

E’ da assolvere a pieni voti il regista norvegese Bent Hamer, già autore del fortunato Kitchen stories (Salmer fra kjøkkenet, 2003), che, da sempre affascinato dallo scrittore di origine tedesca Charles Bukowski, decide di portarne le gesta sul grande schermo. Già in precedenza infatti lo scrittore era stato prestato al cinema attraverso i suoi romanzi, come Storie di ordinaria follia – Erezioni eiaculazioni esibizioni (Storie di ordinaria follia – Marco Ferreri, 1981) e i suoi racconti, come Moscone da bar (Barfly – id., Arbet Schroeder, 1987). Idealmente è proprio da quest’ultima fatica avallata dalla sceneggiatura dello stesso autore, che prende il via il nuovo lento perigrinare di Henry Chinasky lungo la Los Angeles dei quartieri dormitorio, fra i banconi di bar di quart’ordine e gli anfratti di quel microcosmo di perdigiorno di cui lo stesso scrittore fu membro.

La pellicola di Hamer, nata sotto l’aura di prodotto underground e dotata di basso budget, alla fine riesce a capire la vera anima dell’ultimo scrittore beat dell’epoca moderna. Il risultato finale è un film in perenne chiaro scuro, dotato di ben pochi fronzoli, sia recitativi che di ripresa, in cui Matt Dillon da solo riesce a reggere la scena per tutto il corso della pellicola, a parte una breve apparizione di qualche co-protagonista, tra cui si può ricordare Marisa Tomei.

Una menzione va proprio all’unico attore che avrebbe potuto, forse con Johnny Depp, portare sul grande schermo un Henry Chinasky credibile. Dillon è ormai perfettamente calato nel ruolo di attore trasversale, non solo ribelle come etichettato a inizio carriera, ma, dopo la sofferta parte in Crash (id., Paul Haggis, 2005), anche profondo e intimista. Il quarantaduenne attore newyorkese questa volta dà vita a uno dei miti della sua gioventù, riprendendo il filo interrottosi con la precedente interpretazione di Mickey Rourke in Barfly, prendendo spunto da una certa filosofia spicciola da fallito. Dillon aggiunge all’interpretazione di Chinasky una truce ironia, un perenne senso di malessere, una recitazione asciutta e perfettamente adatta alla pellicola, donando all’alter ego di Bukowski tutto quel malessere che si legge nei suoi romanzi e che avrebbe probabilmente affascinato lo stesso autore.

Curiosità
Il film, presentato in concorso alla trentasettesima Quinzaine Des Realisateurs, è stato tratto dall’omonimo romanzo scritto da Charles Bukowski nel 1975.

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