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Nella palude dell’alligatore

Nella palude dell'alligatore

Tre per uno di Alberto Brumana ********

«E’ inutile fare un film sulla storia di Berlusconi perché tutti sanno già tutto e poi lui ha già vinto: ci ha cambiato la testa trent’anni fa». In questa frase recitata da Nanni Moretti nella parte di se stesso c’è tutto Il caimano. La volontà di fare un film su Mr. B ma la difficoltà di non scadere in facili banalità, la necessità di parlare di un argomento scottante ma la difficile scelta di quale registro mantenere. Ventotto anni fa, quando Silvio Berlusconi era poco più che un giovane imprenditore edile, Nanni Moretti in Ecce Bombo non sapeva se «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Non è cambiato Moretti, e ancora oggi non sa, o ci mostra di non sapere, in un gioco intellettuale che rischia di passare per intellettualoide, in che modo rappresentare Berlusconi. E così il premier viene interpretato da tre attori diversi (lo stesso Moretti, Michele Placido ed Elio De Capitani), viene mostrato in immagini di repertorio, viene mitizzato come fosse un personaggio della storia antica. Il gioco di Moretti purtroppo non sempre riesce. Perché a volte il regista si lascia prendere la mano, come quando inserisce le parti documentaristiche con una convinzione più ideologica che cinematografica. È invece decisamente più convincente nelle scene più surreali, quelle in cui viene rappresentato il film nel film, Il caimano, diretto dalla giovane regista interpretata da Jasmine Trinca. Qui Moretti può lasciarsi andare a quelle fantasie cinefile, a quelle battute taglienti e a quelle insolite capacità di rappresentazione che in trent’anni l’hanno reso celebre anche fuori dai nostri confini. La sorprendente scena finale è una summa dell’opera di Moretti, e solo per quella varrebbe la pena di vedere il film.

Ma Il caimano non è un semplice film. È un film nel film nel film. È così, alla parte satirica su Berlusconi, si aggiungono due storie ancor più sentitamente Morettiane, che avrebbero potuto (e forse dovuto) essere in due pellicole diverse.
La prima è quella di una giovane regista e dei suoi tentativi di girare la sua prima opera. In questo personaggio c’è tutto il primo Moretti: la voglia di fare un film impegnato in un periodo di commediacce, la spregiudicatezza e la volontà, l’essere «antipatica e per questo mi piace». È una storia accennata, mai sopra i toni, neppure quando tocca temi impegnativi come la fecondazione assistita.
La seconda è quella di un uomo di mezza età e della sua crisi familiare. In questo personaggio c’è tutto l’ultimo Moretti: quello intimista di La stanza del figlio, quello che riesce a lavorare per sottrazione e che sa raccontare uno stato d’animo con un’azione (là era un trapano in una bara, qua un maglione fatto a pezzi) o con una musica. Silvio Orlando è bravissimo in una parte disegnata su di lui, e il finale così aperto della sua storia, se confrontato con l’ultima scena dell’intero film, fa prefigurare il senso intero dell’opera.

Berlusconi ha vinto, è vero. Anche se perderà la elezioni, ha vinto la sua partita, è stato in grado di cambiare la testa degli italiani. Ma questo non significa una sconfitta definitiva. E la speranza di un singolo gesto, come l’incrocio di sguardi tra Silvio Orlando e Margherita Buy, può essere più significativa dello sconforto per quanto compiuto da una massa che tradisce i suoi principi e in cui non è più possibile riconoscersi (come nella scena finale). Una rivoluzione non fatta da eventi eclatanti che finiscono per ritorcersi contro chi li sostiene, ma da gesti piccoli eppure non meno significativi. Per questo Il caimano, con tutti i suoi difetti, è un’opera importante che invoca, in un periodo di ideologie distorte, la necessità di guardare in se stessi per poter poi agire nella società. Palla al centro, la partita è aperta.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Giuseppe Carrieri ******

Nell’ultima pellicola di Moretti scorgiamo due film: il primo è relativo alla storia della profonda crisi umana che avvolge il produttore Bruno. L’uomo, da sempre legato a squallidi pulp b-movies, è un nostalgico della vecchia lavorazione cinematografica, della sua artificiale e spesso anche inverosimile messa in scena (Bruno spera di poter fare un film su Colombo con un mini modellino di una Caravella) purchè questa possa essere raccontata ancora come favola per far addormentare bambini. E’ impreparato ai grandi sconvolgimenti produttivi del cinema di oggi ed egli stesso così si è tramutato, al pari delle sue creature cinematografiche, in “corpo-trash”, una sorta di rifiuto artistico, in una mummia da rassegna cinematografica.

Ma Bruno è anche un uomo in crisi personale, con un matrimonio in stato terminale, e con l’incapacità, umanissima, di saper dialogare con questa sconfitta; la difficoltà di spiegarlo ai piccoli figli (perché questa non è una delle solite favole trash) e soprattutto l’incapacità di spiegarlo a sé stesso che lo conduce a sprigionare una sorta di follia lenta e inutile, ma potenzialmente distruttiva (il litigio con il gelataio o il crudele squartamento del maglione preferito della moglie, ne sono la perfetta testimonianza). Se questa parte del film risulta umile e spontanea, i problemi sorgono con l’emergere della seconda storia, quella relativa al caimano Berlusconi. Il suo inserto è ibrido, se non amorfo: cinema civile? Docu-fiction alla Moore? O semplice vetrina, molto fumo e poco arrosto? Sebbene lontanamente sia ispirato all’idea di quel glorioso cinema civile di maestri come Rosi e Petri, il film non ne ha mai né l’appiglio investigativo né l’aspra aura graffiante (se non nella conclusione apocalittica, buon seme gettato al vento); più che altro è una sorta di miscuglio buffo e volgare tra le altre due opzioni. Nel film si pongono legittime domande ma non c’è una vera indagine, più che altro si sparano un po’ troppo aprioristicamente delle accuse e dei verdetti senza né graffio né precisione. Berlusconi appare sin dall’inizio come una sorta di Don Corleone meneghino impettito da sanzionare indubbiamente colpevole. Gli stimoli, però, così finiscono subito. In fondo come ammette lo stesso Moretti ironicamente in una scena, fare un film così su Berlusconi è davvero inutile perché “tanto si sa già tutto”. E allora? E allora appare che quest’inserto sia davvero un’occasione sprecata sul piano narrativo – cinematografico, credibile semmai solo su quello polemico-politico. Ma questo non è più cinema: è Micheal Moore (le clip del Berlusconi vero sotto processo e nel Parlamento europeo lo ricordano mostruosamente).

Moretti non ha osato lì dove lui, con la sua bravura indiscutibile, avrebbe potuto: Berlusconi sarebbe potuto essere rappresentato allusivamente come ennesima creatura ridicola trash da sfornare nella carriera di Bruno, e Il caimano si sarebbe potuto celare meglio, attraverso gli intrecci di una storia noir, di un fanta-thriller, troppo paradossale per poter apparire vero. Pur essendo vero. Moretti avrebbe potuto calibrare meglio la sua ricerca e ridicolizzare e condannare ancor meglio il premier, il che davvero non è cosa difficile. Così sembra un fumetto che piace ai soli autarchici comunisti e qualche Ds: è un film rifiuto – tra rifiuti – che impiega tanti buoni mezzi per non essere all’altezza di quello che sarebbe potuto essere. Non ce ne voglia male Moretti, ma al Caimano preferiamo sempre il buon vecchio saggio e sincero Bombo.

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