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Intellettualismo tout court

Intellettualismo tout court

Un pretesto. Ecco di cosa dà l’impressione l’opera seconda di Franco Battiato nelle vesti di regista cinematografico. Un pretesto per sfoggiare le proprie conoscenze filosofiche e musicali, una giustificazione per indossare ancora una volta i panni dell’artista impegnato nell’esplorazione dei vari linguaggi artistici. Probabilmente se continuasse a fare esclusivamente musica arricchirebbe il suo percorso artistico molto di più di quanto non faccia invadendo altre sfere delle quali realmente dimostra di non conoscere né i mezzi né le dinamiche. In nome infatti di un libero e assoluto sperimentalismo Battiato si mette dietro alla macchina da presa e alle numerose telecamere digitali per girare una pellicola che non trova pressoché nessuna ragione di esistere. Il linguaggio cinematografico è infatti inesistente e si concretizza in veloci avvicinamenti a ridosso dei personaggi e in improvvisi cambiamenti di inquadratura: scavalcamenti di campo e altri “errori” dettano il ritmo registico.

Niente sembra voluto, ovvero niente appare come una consapevole sovversione delle regole ma risulta casuale, conseguenza di una non conoscenza da parte del regista delle basilari regole cinematografiche. La storia poi è a tutti gli effetti carente di un particolare interesse e risulta davvero uno sciorinametno a tratti pesante e pedante della cultura di Battiato: dalle lunghe dissertazioni sulla musica di Ludwig van Beethoven alle citazioni di Mekas, dalle dissertazioni filosofiche alle ipotesi fantapolitiche. Divertente il breve intervento di Antonio Rezza che, tutto dicendo e tutto negando, fa raggiungere al film il massimo momento di surrealismo e comicità. Surrealismo che caratterizza volutamente tutta la pellicola, sfociando a tratti in quelle atmosfere oniriche tanto care al cantautore siciliano; comicità a tratti voluta ma a tratti percepita solo dallo spettatore, che niente può fare se non ridere di alcune trovate pensate come serie. Davvero pretenzioso e saccente, tanto da sconfinare in certi momenti non solo nella noia più profonda ma anche nell’antipatia.

Come già era avvenuto in Perduto amor (2003), prima prova registica di Battiato, il misticismo e il senso filosofico tanto declamato dal regista sembrano mete troppo alte per un filmaker, o aspirante tale, che non padroneggia i ferri del mestiere e fanno dei film un pout pourri spesso inodore di conoscenze ed emozioni personali. Essere un intellettuale, o ritenersi tale, non significa cadere nella rete dell’intellettualismo più bieco, ma creare, proprio attraverso l’intelletto, opere artistiche che facciano sognare, riflettere, gioire o soffrire. Battiato riesce solo a dirci che Beethoven scriveva musica per quartetti d’archi. Questo lo sapevamo già. E se non lo sapevamo non c’era bisogno di far un film per farcelo sapere.

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