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Per chi accoglie il buon selvaggio che è in noi

Per chi accoglie il buon selvaggio che è in noi

Una vecchia frase dice che non esistono grandi guerrieri, perché la guerra non fa grande nessuno. Mario ha nove anni e per essere rispettato ha scoperto la guerra e soprattutto ha imparato a non averne paura, ma a sopraffarla freddamente.
Forse così riusciva finalmente a essere grande.
Mario oggi ha ancora nove anni e combatte un’altra guerra, una guerra universale che un po’ coinvolge tutti, padri e figli: il recupero nella società. Non ha più armi e capisce la realtà solo attraverso gli scatti casuali di una fotocamera. Parla con gli animali e sfida le regole perché la sua disobbedienza è la resistenza ad un’altra forma di inciviltà: la nostra indifferenza. Oggi Mario sa di non essere grande, e di essere ancora solo un bambino. E quando ricorda in bianco e nero il suo passato ha paura.

Antonio Capuano ci violenta così con una storia dove l’infanzia è un finto gingillo, un teatro di conflitto dove adulti e piccoli si confrontano per imparare a crescere insieme. Che la mano del regista non sia mai stata delicata, soprattutto con questo tema, è ormai una nozione consolidata. Ma questa volta Capuano centra perfettamente il bersaglio attraverso un’opera che unisce densa violenza psicologica a raffinate carezze affettive, dove per comprendere il mondo occorre davvero chinarsi ad altezza di bambino per guardarlo negli occhi e in quel riflesso, come fosse proprio lo specchietto retrovisore di un automobile, spiare cosa dice lo scanner del suo sguardo. Badate solo che quello non sarà il volto disincantato di chi si ritrova in un paese delle meraviglie, ma la perlustrazione opaca di chi sa di avere intorno l’orco nero. Capuano è un radiografo essenzialista, non sbava, cuce e strappa con i denti, fa sanguinare e poi coagulare ma non perde colpi nel dirigere un lavoro che è spietato come un’opera del miglior Rossellini. Il piccolo protagonista Marco Grieco è un perfetto feticcio dell’infanzia infranta e la sua interpretazione silenziosa e ridondante di occhiate capienti ci introduce davvero nella guerra che vive. Mario è un piccolo buon selvaggio che non ha riti né routine, non è omologato né si piega ai comandi, è la parte che noi abbiamo soffocato e che abbiamo paura a riconoscere come nostra. Come dice la madre adottiva nel film (altra importante interpretazione di Valeria Golino) Mario non va educato, va accolto. Va solo protetto dall’opacità che lo circonda, va guidato e sorretto, va rincorso e abbracciato e non giudicato. Mario ha nove anni e ora ha paura della guerra e sa anche di non essere grande come credeva: eppure la sua guerra non riesce a spegnersi.

Mario dichiara più volte di essere un alieno, di provenire da un altro pianeta e chiede di essere aspettato perché sa di essere in ritardo rispetto agli altri. Mario ha gli occhi ancora sporchi di sangue e cerca di trovare una nuova retina che gli possa dare una forma al mondo in cui vive. Come i cardilli è stato accecato per avere una voce migliore che facesse splendere il sole. Ma giacché non può più guardare, può solo capire attraverso l’artificio di una macchina fotografica digitale. I suoi scatti sono casuali ma individuano i dettagli che ci sfuggono, le sfocature che mettono a fuoco la realtà e soprattutto danno visione ai tabù che ci ostiniamo a occultare. Mario ci decripta e ci interpreta. Forse per questo ci ostiniamo ancora a fargli la guerra.

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