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cultura dell'immagine e della parola

Donna al 100%

Nella vita capitano situazioni assolutamente fastidiose, come restare chiusi fuori di casa perché ci si è dimenticati le chiavi, accorgersi della mancanza della carta igienica quando ormai è troppo tardi, o cominciare a leggere un libro assolutamente insignificante e un po’ noioso e decidere, chissà poi per quale motivo, di volerlo finire a tutti i costi.
Questo è quello che mi è successo con Il diario di Bridget Jones.
Le disavventure della protagonista e degli altri personaggi sono talmente enfatizzate che il libro perde irrimediabilmente il suo aspetto più caratteristico: non può essere considerato il diario di una persona reale. Di conseguenza viene totalmente perso anche il rapporto di immedesimazione che si sarebbe potuto instaurare con la protagonista. Le vicende che le accadono sono troppo irrealistiche perché possano essere condivise. Avere una madre che ti stressa perché a trent’anni non hai ancora una famiglia o perché sei totalmente “fuori moda” potrebbe anche essere normale, ma avere una madre ultrasessantenne che ha rapporti sessuali con qualsiasi uomo che incontri e che scappa con un imbroglione portoghese è tutta un’altra storia.
L’autrice, Helen Fielding, ha condito il suo libro con esagerazioni da sit-com americane di terzo livello, improprie e nocive per la buona riuscita del libro stesso.

Del resto non si può certo dire che la vita di Bridget Jones sia monotona. Eppure gli avvenimenti si ripetono con una ciclicità che rende assolutamente privo di incognite il futuro: c’è la fase depressa-sfigata, in cui Bridget è convinta che tutto stia andando malissimo, seguita dalla fase in cui scopre che in realtà le sue disgrazie sono state provocate solo da una serie di incomprensioni e qui pro quo. Bridget è per un po’ la donna più felice del mondo, la vita diventa bellissima, e subito subentra la fase propositiva e di cambiamento, in cui giura che non cadrà mai più in depressione perché ha imparato dalla passata esperienza. Questa convinzione però non dura molto e lascia presto spazio alla nuova fase depressiva. E così via per trecento pagine. La noia è assicurata.

Dati questi presupposti è con sorpresa e piacere che si assiste a un film divertente e gradevole. Ma già dalle prime scene è subito chiaro come il principale punto di forza sia proprio il profondo cambiamento di prospettiva rispetto al libro: mentre nel diario catastrofi assolutamente incredibili vengono spacciate per inconvenienti di tutti i giorni, nel film si assiste a una caricatura della realtà che propone in maniera ironica e enfatizzata situazioni effettivamente quotidiane (è vero che, forse, non è capitato a tutti di vestirsi da coniglietta con calze a rete, codino e orecchie lunghe per un pic-nic con i parenti, ma questa si chiama eccezione).

Altri cambiamenti favorevoli sono stati lo snellimento dell’intreccio e la soppressione del fastidioso loop depressione / felicità / buoni propositi / nuova depressione. Certo non si può dire che la “nuova” Bridget sia l’asso della stabilità emotiva e della coerenza, ma risulta divertente nei suoi cambiamenti senza diventare noiosa.[img4]
Indubbiamente buona parte di questo miglioramento va attribuito all’attrice Renée Zellweger, che riesce a caratterizzare il suo personaggio dandogli quella personalità e quello spessore di cui nel libro si sentiva la mancanza.
Parlando del resto del cast non c’è davvero nulla di cui lamentarsi: Hugh Grant nella parte del capo sexy e bastardo e Colin Firth come alter ego, un po’ introverso ma affascinante.
Come ciliegina sulla torta, una colonna sonora spumeggiante che accompagna un film terapeutico per tutte quelle situazioni in cui una buona dose di dinamismo e di allegra confusione possono rivelarsi salutari per l’umore. Alla faccia dell’«era meglio il libro»!

Il diario di Bridget Jones, romanzo di Helen Fielding, 1998
Il diario di Bridget Jones, regia di Sharon Maguire, 2001

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