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cultura dell'immagine e della parola

Sogni a confronto

Avevano già provato a portare sullo schermo un libro di Hubert Selby Jr.: Ultima fermata Brooklyn (Last exit to Brooklyn, Uli Edel, 1989) tratto dal primo scandaloso romanzo dell’autore. L’esperimento non riuscì.
Diversa la storia di Requiem for a dream. Il libro è stato pubblicato in Italia con venticinque anni di ritardo. Il film, uscito nel 2000, non è mai passato nelle nostre sale. Eppure entrambi sono considerati capolavori.

1978, Bronx

Hubert Selby Jr. è riconosciuto come uno dei più grandi scrittori americani; difficile da inquadrare, la sua personalità è unica e le sue vicende personali sono talmente assurde che sembrano uscite da uno dei suoi romanzi.
Hubert Selby Jr. ha scritto il proprio romanzo-capolavoro Requiem per un sogno come fosse un lungo racconto, noncurante della punteggiatura, degli spazi da rispettare. Niente numeri e nomi per i capitoli, solo parole. Come un flusso di coscienza postmoderno il racconto scorre veloce, senza pause. Doppio spazio e a capo, si ricomincia.

Iniziamo con le presentazioni: Sara, la madre, Harry, il figlio, Marion, la ragazza e Tyrone C., l’amico. Siamo nel Bronx, New York City, fine anni settanta. L’eroina dilaga in città, uccide. Ma non è solo la droga a fare vittime: la televisione, una dieta sbagliata, la solitudine, i sogni sono killer altrettanto sadici.
La scrittura visiva di Selby descrive la realtà in modo lucido e spietato, non lascia spazio all’immaginazione. Quello che racconta è la vita. Senza introduzioni ci porta subito in quella stanza: c’è Harry e c’è sua madre chiusa nel ripostiglio. Noi, osservatori passivi e impotenti, continuiamo a leggere.
Selby è crudele quando descrive la psicologia umana. In quattro righe spiega come si sentono gli amici dopo una dose di di-na-mi-te; in quattro pagine descrive le battaglie psicologiche di Sara che lotta per non mangiare l’ultimo cioccolatino.
Ma l’autore si spinge oltre: raggiunge l’apice con il lungo monologo di Sara che racconta al figlio cosa vuol dire essere soli. E ci riesce così bene che fa male leggerlo.

2000, Coney Island

Sara chiusa dentro il ripostiglio guarda attraverso il buco della serratura. Harry urla e esce di casa portando via la televisione. Sara dentro al suo rifugio si ripete che se non ha visto quello che è successo, allora non è successo veramente. E che tutto andrà a posto. Ciò non accade in questo film perché Darren Aronofsky ci fa VEDERE tutto.
Un qualsiasi regista avrebbe affrontato una parte importante come la sequenza d’apertura del film con una serie di inquadrature campo / controcampo oppure con la macchina da presa che inquadra da dietro Harry – davanti alla porta – che urla alla madre nascosta che risponde e ci fa sentire solo la sua voce.
Aronofsky no. Aronofsky osa e affronta i problemi della trasposizione con uno stile tutto personale che si adatta perfettamente ai toni e ai ritmi del romanzo. Decide di andare oltre le parole per entrare dentro le pagine del libro e risolve la sequenza iniziale scegliendo lo splitscreeen.
Lo schermo diviso in due parti, due inquadrature diverse e non perfettamente sincronizzate. Da una parte, a sinistra, Sara chiusa dentro il ripostiglio, dall’altra suo figlio Harry. Parlano attraverso la porta.
Lo Splitscreen è una soluzione visiva forte che Aronofsky usa per descrivere un momento delicato come l’intimità tra Harry e Marion: chiacchiere, carezze, mani e bocche viste da due diversi punti di vista rendono la scena decisamente efficace.

Darren attraverso un processo di appropriazione sposta il setting della storia dal Bronx a Coney Island, Brooklyn: decide di girare nei luoghi della sua infanzia, luoghi con un significato, i luoghi della sua vita.
Integra elementi per lui importanti ma estranei al libro – il mare, il parco divertimenti di Coney Island, la lunga passeggiata del molo – e li rende parte della storia e trasformandoli attraverso il suo punto di vista, il suo sguardo e soprattutto il suo particolare gusto estetico.
Adotta una divisione in atti, assente nel romanzo. Le stagioni passano e a ogni punto di svolta tutto cambia in peggio. Dall’estate si passa all’autunno, il cambiamento è radicale: i colori, il ritmo, la musica. Tutto si fa più veloce, più incalzante. E con l’inverno arriva un vortice di disperazione, le speranze sono perse.
Lo stile di questo film è forte, crudo, ma anche capace di affrontare momenti delicati. Porta all’estremo la visualizzazione di ciò che è più difficile da rappresentare: allucinazioni, pensieri, incubi, sentimenti. Il frigorifero si muove e diventa minaccioso. Ciambelle e brioche volano verso il soffitto. La televisione entra direttamente in casa e il salotto diventa uno studio televisivo.
Il risultato più alto Aronofsky lo raggiunge nel “montaggio di dettagli” tipico del suo stile. L’azione non viene fatta vedere nell’intero: si suddivide il movimento tra più inquadrature non continue che mostrano momenti diversi della stessa scena. Tagli molto veloci – uniti a suoni sincronizzati – mantengono tutta la fluidità, la dinamicità e la continuità dell’azione.

Quello che le immagini non riescono a descrivere è affidato ai suoni: gli elementi sonori si riallacciano agli elementi narrativi contenuti nell’immagine. Il sincronismo portato all’estremo crea un fortissimo effetto audio-visivo.[img4]
Il rapporto è immediato: i suoni, veloci come le inquadrature “raddoppiano“ la percezione di ciò che vediamo, l’immagine di per sé è troppo breve per fissarsi nella memoria e si sente ciò che non si ha il tempo di vedere. L’esagerata frantumazione del tutto riesce a dare però un senso di flusso continuo, grazie alla musica – affidata agli archi del Kronos Quartet – che funziona come uno sfondo.
In Requiem for a dream sono messe in scena le debolezze umane. Degrado e disperazione vengono mostrate senza alcuna pietà. Chiudiamo il libro, ci alziamo dalla poltrona con un senso di nausea che stringe lo stomaco. Sappiamo che questa notte non si faranno sogni d’oro.

Requiem per un sogno, romanzo di Hubert Selby Jr., 1978
Requiem for a dream, regia di Darren Aronofsky, 2000

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