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Retorica dell’Olocausto

Retorica dell’Olocausto

Una pellicola sull’Olocasuto. L’ennesima. E la Storia, quella appunto con la “S” maiuscola, sembra spesso possedere il potere di bastare da sola alla creazione di un’opera cinematografica di valore. Ma è un tranello in cui tanti registi sono caduti, facendo naufragare in un mare di retorica e di stereotipi film noiosi e prevedibili. Con Senza destino esordisce dietro alla macchina da presa l’ungherese Lajos Koltai, già noto direttore della fotografia per registi come István Szabó e Giuseppe Tornatore: la storia è tratta dal romanzo autobiografico dello scrittore, ebreo ungherese, Imre Kertész, deportato da bambino nel campo di concentramento di Auschwitz. Dall’infanzia fra le vie di Budapest, alle efferatezze subite nel lager, fino alla liberazione.

Un pezzo di Storia, un doveroso atto di memoria, niente più. Nelle due ore e passa di film, infatti, il linguaggio cinematografico non riesce veramente mai a trovare una sua strada personale, infilandosi costantemente nei meandri già attraversati e calpestati della convenzionalità e del lezioso, senza nessun sincero apporto di estro e di talento; quante volte si è già vista la trovata di virare dal colore, emblema della vita serena e spensierata, al bianco e nero seppiato durante la terribile permanenza nel campo di concentramento; ad acuire il senso di manierismo e affettazione, nonostante un certo realismo e crudezza nelle scene del campo, le musiche enfatiche e ampollose di Ennio Morricone (il tema principale ricorda innegabilmente quello de La vita è bella di Benigni), una fotografia troppo ricca e bella, un eccessivo soffermarsi sugli occhioni sgranati e spauriti del protagonista (l’esordiente Marcell Nagy). E se la commozione e lo sdegno riescono sinceramente a far capolino di tanto in tanto, lo si deve esclusivamente alla forza dell’immane tragedia storica, all’assuridtà di quella pagina del Ventesimo secolo che ha ancora aperte tutte le ferite.

Il momento migliore di tutto il film è nel finale e si esulta quasi per il “meglio tardi che mai”; il ragazzo è tornato vivo da Auschwitz, con l’insopportabile fardello dei traumi fisici e, soprattutto, dell’anima. Passeggiando durante un’assolata giornata primaverile fra le strade di Budapest, interrogandosi sulla possibilità o meno di poter continuare a vivere, scopre che anche la vita che appare più dolorosa e inesorabilmente segnata, vale la pena di essere vissuta, perchè un motivo di felicità è sempre dietro l’angolo. La retorica anche qui non manca, ma il messaggio è bello e, dopo due ore di brutture, fa sorridere di cuore.

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