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Occhi a mandorla

Occhi a mandorla

Il tema è sicuramente di quelli importanti.
Può Hollywood raccontare con vera emozione, ma sempre attraverso i modismi che veicolano il suo cinema Blockbuster, una cultura millenaria lontana più in senso logico che chilometrico?
Da quanto si può trarre da Memorie di una geisha, una risposta negativa è piuttosto prevedibile.
Ciò che rimane dopo la visione dello spettacolo è infatti solo l’approccio fintamente semiologico di una cultura e uno sfoggio di kimoni che sfiora il carnevalesco tanto è forte la distanza tra il mondo dell’Hanamachi e la sua visione a stelle e strisce.

La geisha nell’immaginario collettivo e stereotipato occidentale, è una sorta di prostituta, una bellezza effimera dedita al compiacimento del Dio-Uomo. Idea che probabilmente il talentuoso (o per lo meno così pareva) autore di Chicago (2002) ha cercato di confutare in ogni modo, con il risultato paradossale della costruzione di un quadretto dove delle ballerine si scontrano, in piena tradizione Moulin Rouge (id., Baz Luhrmann, 2001) per ottenere il potere, i favori e l’amore di un uomo che il potere già lo possiede.
Una regola ben più vecchia di Machiavelli, a quanto pare.
Arthur Golden nel suo romanzo, che ha raccolto l’invidiabile score di cinque milioni di copie vendute nei trentadue paesi in cui è stato pubblicato, si soffermava lungamente sul particolare, intrecciando al filo del narrato l’analisi estetica di un mondo nascosto. Nel film, invece, manca completamente questo tipo di indagine. Una mancanza che necessariamente è evidente molto di più di qualsiasi incongruenza con la storia originale.
Ogni colore, ogni movenza ha un senso nella cultura giapponese, così come la sacralità panteista delle cose e soprattutto la ritualità che ha consentito di conservare e tramandare.

Per Marshall, invece, pare che il sumo sia una specie di wrestling, e la cerimonia del the banalmente un happening mondano.
Questa visione non farà altro che avvicinare lo spettatore del grande pubblico per le dinamiche dichiarate del cinema hollywoodiano: finto estraniamento, fascinazione e immedesimazione.
Da questo naufragio si salvano le impressionanti scenografie di John Myhre (già premio Oscar per Chicago), la fotografia naturalistica di Dion Beebe, i ricchissimi costumi di Colleen Atwood (altro premio Oscar sempre per Chicago) e le struggenti musiche di John Williams.
Per quanto riguarda invece gli attori, non c’è nulla da dire sulla bellezza e sulla bravura delle protagoniste, a parte il fatto che non sono giapponesi bensì cinesi.
Un dettaglio non da poco, almeno per quanto riguarda l’opinione pubblica nipponica che si è subito animata di proteste contro chi ha prodotto la pellicola. In definitiva, un film destinato ad avere successo sul grande pubblico, proprio per i suoi paradossi. Così lontano, così vicino allo spettatore. Ma a chi ha veramente interesse per il mondo orientale, e rifiuta un approccio di tipo entomologico, può decisamente esimersi dalla visione di Memorie di una Geisha.

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