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Il bosco e le fanciulle

Il bosco e le fanciulle

Titoli di testa: due aggraziati piedini di fanciulla si muovono a ritmo di musica, inguainati dentro scarpette da ballo classico, e mentre svolgono una leggiadra coreografia, pian piano la seta rosa si tinge di sangue. Raccapricciante avvertimento e forse immagine-metafora dell’intero film, che si apre nel mezzo di un bosco, apparente locus amoenus nei dintorni di Marienbad. Come spesso insegnano le favole, bisogna tenersi alla larga da certi boschi: ma questo ancora non lo sanno le fanciulle ospiti di un esclusivo collegio, in cui vengono istruite alle nobili arti della musica e della danza, in condizione di isolamento e separazione dal resto del mondo del quale esse nulla conoscono. Il film è ispirato all’omonimo libro scritto da Frank Wedekind nel 1903 mentre si trovava rinchiuso per lesa maestà nel castello di Konigstein, e si basa sulla sceneggiatura del recentemente scomparso Alberto Lattuada, che da tempo voleva farne un film.

Tra una lezione di danza e l’altra si fa strada l’inquietudine, nelle protagoniste della vicenda come nello spettatore: non ci vuole molto a intuire che il collegio e chi lo governa nascondono molti segreti, e la bellezza della cornice naturale stride al contrasto con quanto è nascosto nelle stanze segrete, fisiche del palazzo e psicologiche della memoria. Nel momento in cui le fanciulle tentano di capire il perché della loro vita nel collegio e di stabilire un contatto con la realtà esterna, non solo gliene viene negata la possibilità, ma pagano con la morte la semplice curiosità: ci sono, nel corso della pellicola, alcune scene realmente orrorifiche, che traslano man mano tutta la vicenda in una prospettiva straniata e quasi onirica. Siamo propensi di solito a credere che certe cose accadano soltanto nella dimensione del sogno / incubo (e della favola), dove il rassicurante può repentinamente assumere le sembianze del lupo cattivo… C’è, nel film, un senso palpabile di claustrofobia, le fanciulle si muovono tra le quattro mura, cullate dalle illusioni della giovinezza e dagli amori saffici che, naturalmente, le accompagnano.

La confezione di Irvin è lussuosa nelle ambientazioni, la ricostruzione di scene e costumi è quasi calligrafica (la supervisione è di Dante Ferretti), e tutte le interpreti sono molto, molto brave. Tuttavia, il film resta sempre un filo al di qua della linea d’ombra oltre la quale si spalanca il non detto della violenza e dell’erotismo; non riesce a farsi vera metafora dell’orrore dei lager (come avrebbe potuto, soprattutto per la versione di Lattuada) e forse resta imprigionato dai dettagli realistici che pure gli conferiscono vivezza. Il linguaggio usato non sa stare al passo con la storia, che offriva possibilità di maggiori sperimentazioni, né portare fino in fondo le tematiche che la vicenda fa affiorare. Comunque inquietante, soprattutto nel finale che si presenta come l’esatto rovescio della favola: il Principe stupra Cenerentola, costretta a vagare correndo in preda all’Orrore in un bosco deserto e privo di vie d’uscita.

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