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Si esiste solo al passato

Si esiste solo al passato

Quando un film viene tratto da un romanzo di successo, qual è Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer, è difficile mantenere durante la sua visione una completa obbiettività di giudizio. La tentazione è quella di concentrarsi sulle differenze della trama, vedendo nelle discrepanze una sorta di “infedeltà” al testo. Tanto più se il libro in questione è stato molto amato, come in questo caso. Non che sia importante per giudicare se Ogni cosa è illuminata sia o no un buon film, si segnala comunque che a Foer il risultato finale non è piaciuto.
Il primo film diretto da Liev Schreiber (già interprete, tra gli altri, di The hurricane – id., Norman Jewison, 1999 -, Rko 281 – id., Benjamin Ross, 1999 -, The manchurian candidate – id., Jonathan Demme, 2004) è un intenso, doloroso viaggio della memoria, sulle tracce di una verità che si rivela sempre meno importante, il vero tesoro essendo la ricerca stessa della verità: il camminare a ritroso del protagonista sui passi impressi nel terreno della memoria dai suoi famigliari.
Schreiber, autore anche della sceneggiatura, dev’essersi trovato di fronte a un compito non facile al momento di adattare il romanzo di Foer. Sceglie di semplificare, riducendo a due sole le tre storie parallele (ma sarebbe più corretto dire concentriche) che costituivano uno dei motivi di maggiore originalità del romanzo. Era forse una scelta inevitabile per non appesantire la narrazione cinematografica, che risulta comunque complessa anche in questo modo.

Ciò che costituiva il maggior pregio del romanzo di Foer, vale a dire la straordinaria inventiva linguistica e la forte sensibilità dello sguardo del narratore, ritorna in Ogni cosa è illuminata. Schreiber riesce nel difficile tentativo di far percepire i sentimenti nascosti dei personaggi, la loro empatia, la vicinanza del loro soffrire comune di esseri umani, anche di fronte a una grande distanza nel tempo e nello spazio. Merito di una serie di attori fuori dall’ordinario, in particolare Eugene Hutz, cantante ucraino che interpreta la parte di Alex, Boris Leskin nel ruolo dell’irascibile nonno di Alex, e Laryssa Lauret che dà gli occhi al personaggio della dolce Lista. Commovente la sequenza in cui quest’ultima e il protagonista, interpretato da Elijah Wood, si ritrovano dopo la faticosa ricerca e pur non conoscendo l’uno la lingua dell’altro sanno intendersi solo fissandosi negli occhi, in silenzio.
Considerata la complessità del materiale da trattare, bisogna riconoscere a Schreiber di essere riuscito a mantenersi sempre un passo indietro rispetto a ciò che avrebbe forse potuto volere dimostrare un regista (già attore) agli esordi. Il rischio poteva essere quello di una rumorosa baracconata, concentrata magari sulla prima parte del racconto, che effettivamente è molto divertente. Ogni cosa illuminata in questo è molto fedele al romanzo da cui è tratto: le rivelazioni che il protagonista rinviene durante il suo viaggio disegnano una parabola sempre più dolorosa, e al tempo stesso sempre più serena. Qualche ingenuità forse si può forse avvertire nei passaggi tra i piani narrativi, in particolare per quanto riguarda i flashback. A ben guardare, però, sono soltanto dolcemente rétro.

Sarà anche vero che Ogni cosa è illuminata colpisce prima di tutto per la splendida storia che racconta. Non poteva essere altrimenti. Per apprezzarlo appieno, è sufficiente pensare a quanti romanzi di successo sono stati adattati per il cinema con risultati a dir poco disastrosi. Anzi, questa sembrerebbe essere piuttosto la regola. Che il film di Schreiber non sia piaciuto a Jonathan Safran Foer, è scontato. Troppe differenze, e possiamo intuire che la sensazione di vedere un proprio libro alterato dev’essere simile a quella di vedere la propria donna insieme a un altro, un altro non all’altezza. Pensandoci bene, invece, noi siamo felici che Ogni cosa è illuminata viva di vita propria. L’adattamento calligrafico avrebbe involgarito entrambi, il romanzo, e il film.

Curiosità
Jonathan Safran Foer compare in una delle prime scene del film, è il giardiniere che soffia via le foglie nel cimitero. Il cantante Eugene Hutz, soprannominato l’”Iggy Pop zingaro”, è il front man del gruppo gispy-punk ucraino Gogol bordello. Hutz canta anche in italiano nella canzone Santa Marinella, che a causa del suo testo “pepato” difficilmente sarà trasmessa dalle radio italiane: certamente non da Radio Maria.

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