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Romanzi di vita

Romanzi di vita

C’era una volta in Italia di Matteo Mazza *******

Romanzo criminale è un viaggio nel tempo. Il crime-story di Michele Placido assorbe quasi vent’anni di storia d’Italia. Anni in cui la Banda della Magliana trovò in Roma il palcoscenico ideale per i propri traffici. Un albero che andava ramificandosi in tutto il paese.
Post ’68. Anche ma non solo. I primi anni settanta furono teatro di un processo di modernizzazione sociale che incise sensibilmente sui valori e i costumi correnti. Referendum divorzio. Compromesso storico fra i tre maggiori partiti italiani. Proteste operaie. La Fiat occupata. Brigate Rosse. Attentati. Terrorismo. Il 9 maggio 1978. Il 2 agosto 1980. Eppoi la droga, i soldi, i criminali. Anni di piombo e anni di sangue. L’Italia ne uscì in qualche modo. Sfiancata e sofferente. Anni decisivi, riflesso di un’attualità non molto differente.

Le vicende del Libanese, del Freddo, del Dandi ci accompagnano nei tempi e negli spazi che furono. L’occhio di Placido è attento. Scrupoloso. Più volte venuto a contatto nei suoi lavori con la fiction storica (La Piovra, Pummarò – 1990 -, o Un eroe borghese – 1995), Placido dimostra di sapere quel che vuole. L’utilizzo continuo dei primi piani ne è la conferma. Oppure le numerose citazioni del “cinemaamanoarmata”, i poliziotteschi degli anni Settanta. C’è anche l’impronta del maestro Rosi e del suo cinema civile come patrimonio culturale. Ma la mano di Placido non è sempre ferma, non sempre centra l’obiettivo. Romanzo criminale è un film passionale, pregio e limite di un’operazione ambiziosa e coraggiosa. Ma c’è troppo di tutto in questo film. E i grandi classici insegnano come sia rischioso e faticoso affiancare cinema ed epopea gangsteristica.
Leone, Scorsese, Coppola, De Palma, non chiudono in unico capitolo le loro storie. Non devastano di “taglia e cuci” i loro personaggi e i loro scenari. L’America di Leone è il capitolo conclusivo della sua seconda personale trilogia dedicata al tempo (C’era una volta il West – 1968 -, Giù la testa – 1971 -, C’era una volta in AmericaOnce Upon a Time in America, 1984). Quella di Scorsese è invece la tappa ultima del dio denaro, delle pistole e dei soldi (Mean Streets – id, 1973 – Quei bravi ragazziGoodfellas, 1990 -, Casinò – id., 1995). I racconti mitologici coppoliani (Il PadrinoThe Godfather, 1972, 1974, 1990) mescolano i confini sottili tra Male e Bene e i conflitti tra vecchia e nuova America. E De Palma celebra romanticamente la sconfitta del bandito Carlito Brigante, concludendo in questo modo il suo trittico (Scarface -id., 1983 -, Gli intoccabiliThe Untouchables, 1987 -, Carlito’s Way – id., 1993).
Ecco perché qui, tutto è troppo condensato. Romanzo criminale è un film che si appesantisce con l’incalzare degli eventi. Perde lentamente di freschezza. Non sempre la fotografia è efficace, non sempre i filmati-inserto funzionano. Non tutti i personaggi che danzano attorno alle vicende riescono a reggere l’intensità del Freddo. E neppure la sceneggiatura di Rulli e Petraglia conserva il rigore di cui necessiterebbe.
Rimane avvincente la sensazione di trovarsi di fronte a un’epopea. Un film importante. Un pezzo della storia d’Italia inquadrato dalla strada. Uno sguardo sulla vita che si incrocia con quella dell’intero Paese. Come tanti pezzi di vetro rotti. Boccata d’aria fresca. Un film da difendere.

La peggio gioventù di Ciro Andreotti *********

Se siete speranzosi di trovare in Michele Placido l’alfiere di quel cinema di denuncia alla Elio Petri o in stile prettamente Pasoliniano, se il vostro desiderio è trovare in questa pellicola qualche riferimento ai cruenti anni di piombo e una serie di spiegazioni riguardanti le miserie della nostra penisola, è meglio che ve lo scordiate, questo non è il film che fa per voi.
Placido è comunque capace d’incantare con una riduzione drastica, ma indispensabile, del bel romanzo scritto da Giancarlo De Cataldo. Il regista, alla soglia dei sessant’anni, torna alla ribalta mascherando da cinema d’impegno una storia di amicizia e sangue, muovendosi su un terreno impervio ma a lui, ex poliziotto in servizio nella Roma dove s’aggirava la vera Banda della Magliana, quanto mai familiare.

Il Romanzo criminale di Placido si allontana da subito dalla grandiosa opera letteraria di De Cataldo. Questi aveva prediletto un taglio prettamente giornalistico per narrare gli avvenimenti con terminologie e linguaggio di borgata, cercando di esaminare accuratamente le implicazioni della “banda” nel tessuto sociale dell’Italia degli anni di piombo. Alla visione della pellicola non ci si può invece illudere, non siamo davanti a cinema di denuncia, Placido e gli sceneggiatori mostrano il solco ma nascondono abilmente l’aratro, le ragioni di certe scelte e le effettive implicazioni della banda nelle azioni criminose.

Al tempo stesso però ci si trova al cospetto di uno spaccato di vita, di un’epoca ormai distante alcuni lustri, di una storia d’amore, sangue e amicizia, di differenti modi di considerare il gruppo, la banda, l’amicizia sacra per ”il Freddo”, strumentale invece per “il Libanese” e “il Dandi”. Una Storia narrata e costruita per far riflettere, che non assegna colpe né meriti, che non riesce a far credere di trovarsi di fronte ad un gruppo di eroi, ma che in realtà ci mette al cospetto di un cast di grandissimo livello in cui spicca sia il commissario Nicola Scialoja, interpretato da uno Stefano Accorsi maturo e capace di immedesimarsi in un ruolo non facile, che “il Libanese”, cioè un Pierfrancesco Favino capace di ergersi sopra tutti e dimostrare di essere, probabilmente, il miglior attore italiano in circolazione. Un manipolo di ottimi attori in grado di stare in scena senza sbavature, senza prevaricazioni, grazie anche a una sceneggiatura misurata che riesce a toccare le corde del sentimentalismo, dimostrando che forse non dobbiamo poi aspettare molto per poter vedere del grande cinema di casa nostra.

Curiosità
Camei di Michele Placido che interpreta il padre del Freddo e di Giancarlo De Cataldo nel ruolo del giudice che legge le sentenze di reclusione per i membri della banda. Oltre quindici milioni di budget e nove mesi di lavorazione. Colonna sonora curatissima che spazia dai Queen agli Equipe 84, da Patty Pravo a Anna Oxa, con Giorgia che canta I heard it through the grapvine.

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