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Good Clooney

Good Clooney

Che George Clooney fosse pieno di risorse e iniziative per promuovere un cinema meno vincolato dai canoni economici delle major in molti l’avevano già capito; in passato si era preso i suoi rischi, rinunciando all’invidiabile stipendio per il Dottor Ross di E.R. e accettando film non convenzionali come Solaris (id., Steven Soderbergh, 2002). Per i suoi ideali aveva rinunciato all’immagine di star stereotipata producendo film che a volte si sono rivelati insuccessi (vedi Welcome to Collinwood – id., Anthony e Joe Russo, 2002) e scegliendo accuratamente i registi con cui lavorare (Coen e Rodriguez).
Ma la vera sorpresa è che nel ruolo più impegnativo e complesso che il cinema offre, quello del regista, Clooney con questo suo Good night, and good luck ha mostrato di valere davvero il suo atteggiamento rivoluzionario, posizionandosi di diritto nella stretta schiera dei grandi attori registi (Redford, Eastwood, ecc.).

Già con Confessioni di una mente pericolosa (Confessions of a dangerous mind, 2002) aveva dimostrato grande padronanza del mezzo, rielaborando con mano decisa un complesso script dell’inarrivabile Charlie Kaufman. Clooney mostra un coraggio da leone anche nella scelta del cast e in primis del protagonista: un Sam Rockwell non ancora salito agli albori della critica nel primo film, un superbo David Strathairn in questo secondo.
Presentato in concorso all’ultimo festival veneziano e dato favorito fino all’ultimo prima di capitolare di fronte ad Ang Lee, il film è tornato a casa con due premi secondari, ma con un successo di pubblico e critica notevoli.
Amato dai critici per questa sua opera, George regista, attore e anche sceneggiatore ha dimostrato una poliedricità notevole, andando esattamente dove voleva arrivare e riportando a galla un tema scottante come la caccia alle streghe del senatore McCarthy.
La struttura del film è costruita intorno all’universo giornalistico televisivo, molto noto all’attore per la professione del padre e già trattato in A prova di errore (Fail safe, 2000), remake di un noto film firmato per la tv da Stephen Frears ma prodotto e interpretato dallo stesso Clooney.

Utilizzando uno splendido bianco e nero, Clooney è riuscito con un montaggio molto efficace a unire le sequenze da lui dirette a filmati di repertorio, rappresentando la realtà nel modo più distaccato possibile, ad esempio non assegnando a nessuno il ruolo di McCarthy, mostrato sempre solo da documenti autentici. In questo modo il regista è riuscito a evitare le polemiche per una posizione che potrebbe essere considerata estremistica, e a usare la sua arma più affilata, il talento, per supportare le proprie idee politiche, a differenza di molti suoi colleghi che preferiscono scendere in piazza a criticare l’attuale politica internazionale.
Il film, che a tratti appare fin troppo documentaristico, scorre veloce grazie a un ritmo serrato e a una trama avvincente, che aiuta anche i meno informati sulla storia americana a interessarsi a questa caccia alla verità. Il quarto potere poche volte come in questo caso è stato riproposto in toni tanto onorevoli (a memoria bisogna tornare a Tutti gli uomini del presidenteAll the president’s men, Alan J. Pakula, 1976 – per ritrovare un prodotto simile), mostrando che forse un tempo più di oggi si ricercava davvero di stanare i criminali invece di accompagnarli per mano nelle loro malefatte.

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