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L’amico Gab incontra Doctor House

Doctor House ©
La notte scorsa, io e l’amico Gab l’abbiamo trascorsa seduti su un marciapiede con una bottiglia di grappa slovacca a discutere sull’effettivo valore di Dr. House – Medical Division (House, M.D., 2004), la serie ospedaliera che fino al 21 settembre ci terrà compagnia il mercoledì in prima serata su Italia1. L’amico Gab sostiene che si tratti di una fiction di altissima qualità, io sono un poco più scettico a riguardo.
Per chi non ne avesse visto neanche una puntata, la riassumo in poche battute: il dottor Gregory House (l’eccellente Hugh Laurie) è uno specialista in malattie infettive cattivo come l’aglio, ma al tempo stesso molto capace dal punto di vista professionale. In sostanza, un sociopatico all’ultimo stadio capace di risolvere con acume luccicante tutti i casi che gli si presentano in corsia.

Di pregi questa serie ne ha parecchi, abbastanza da non incrinare l’amicizia di lungo corso tra me e il Gab. In particolare, focalizzerei l’attenzione sull’arguta costruzione giallistica delle trame, che il bravo David Shore (l’autore del format) ha saputo sposare con un’interessante riflessione sul corpo umano. Le scene più riuscite di Dr. House sono quelle che si svolgono nello stanzino dove si riunisce con i suoi colleghi per discutere le diagnosi. Sono momenti di purissima Agatha Christie, delle minuziose elencazioni di indizi che il protagonista analizza e collega tra loro fino al raggiungimento della soluzione, che coincide con la terapia più efficace per guarire il paziente.
Al primo sguardo si ha l’impressione di assistere a una versione statica di CSI. L’indagine scientifica c’è, anche se manca la scena del crimine. In realtà il procedimento, in questo caso, è molto più suggestivo: la scena del crimine è il corpo stesso del paziente, il delitto è il suo progressivo disfacimento e la giustizia non si occupa tanto di punire il colpevole, quanto di salvare la vittima. Questa, se mi concedete, è una grandissima idea, e al buon David Shore bisogna fare quantomeno un applauso.
Doctor House ©Alla luce di questo ragionamento, la cronica mancanza di umanità dello stesso House diviene tra l’altro assolutamente funzionale. Uno dei presupposti della scienza è l’oggettività, la mancanza di coinvolgimento emotivo tra scienziato e oggetto di studio. Quindi non c’è niente di meglio di un dottore asociale, che non ha a cuore i suoi pazienti ma solo la guarigione dei loro corpi.
Per dirla in termini calcistici: Medico in famiglia 0 – Medico incazzoso 3.
Possiamo anche cerebralizzare il discorso sul corpo e aprire una breve parentesi sulla fisicità del protagonista, il quale si presenta claudicante e munito di bastone. Volendo fare i citazionisti, potremmo vedere questa zoppia come un vago rimando al Riccardo III di Shakespeare e alla teoria ivi esposta secondo cui alla deformità del corpo si legano ferite dell’anima. Ma forse è una considerazione un po’ cazzona (sostiene l’amico Gab).

Fatte queste considerazioni, dovremmo sollevare i nostri pollici e sancire l’assoluta grandezza di questa serie. Ma quell’insolente del Gab si ostina ad alzare il tiro e ad affermare che Doctor House è una fiction sublime in quanto ribalta con decisione gli stereotipi moraleggianti di tutti gli altri telefilm di spunto medico attualmente in circolazione, soprattutto Doc ed Everwood.
A mio parere questo ribaltamento non rappresenta la sua forza ma piuttosto il suo limite.
Prendiamo proprio Doc ed Everwood, visto che sono stati due dei telefilm di punta (!) di Mediaset per tutta l’estate, in contemporanea con gli esordi di Dr. House.
Il cast di DocIl protagonista di Doc è il dottor Clint Cassidy, un cialtrone delle praterie che sembra uscito da un video dei Toto ed esercita nell’ospedale di una grande metropoli, dispensando in continuazione massime agresti e sbrodolando sentimentalismi da soap.
A fare la parte del leone in Everwood, invece, troviamo il dottor Andy Brown, altro cialtrone che però ha fatto il percorso inverso rispetto al suo collega del Montana, spostandosi dalla nevrotica Manhattan a una piccola comunità del Colorado. Di lui dirò molto poco, perché non mi piace e soprattutto perché trovo che Everwood sia fondamentalmente una morbosa panoramica sulle repressioni sessuali di quello che gli autori presumono sia l’adolescente medio americano (in questo caso il figlio di Andy, Ephram, che dalla prima all’ultima puntata ammorba suo padre e noi spettatori farneticando verbosamente circa il suo desiderio di penetrare la fidanzatina Amy, che onestamente è bellissima, e qualunque altra fanciulla gli capiti a tiro).
Ad accomunare i dottori Clint Cassidy e Andy Brown, uno straordinario amore per l’umanità, dosi eccessive di gentilezza e tanto buon cuore. L’esatto opposto di quanto messo in mostra da Gregory House, che stronzeggia senza sosta e con i colleghi e con i pazienti.
[img4]Il guaio è che questa opposizione, che tanto piace all’amico Gab, alla lunga diventa meccanica e prevedibile, finendo anche per eclissare gli spunti migliori del telefilm. È chiaro che gli sceneggiatori hanno costruito il carisma del dottor House proprio sul suo anticonformismo, ma dopo un paio di puntate ci si abitua anche a quello, visto che non aggiunge nulla allo spessore della serie. Insomma, so benissimo che House dirà sempre l’esatto opposto di quello che direbbero Cassidy, Brown e perfino il reverendo Camden, se passasse da quelle parti. E allora? Allora non stiamo a menarcela più di tanto visto che si è capita l’antifona.
O si gioca sull’estremizzazione, decidendo di non limitarsi a eguagliare in cinismo la bontà degli altri medici da telefilm, e quindi li si supera con qualcosa di veramente disturbante, magari scrivendo una sceneggiatura in cui House usa il suo bastone per picchiare un’infermiera o una suorina, oppure tanto vale non marciarci troppo e tenere questo aspetto in secondo piano concentrandosi sulle cose che funzionano meglio, come i succitati momenti di indagine medica che a me piacciono tanto.
Con buona pace dell’amico Gab.

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